Considerate le condizioni mentali precarie in cui mi trovo, credo che scriverò un diario molto divertente. O molto strano. Adesso vediamo.
Premesso questo, vi dico che mi sto chiedendo se sono morto e sono arrivato in Paradiso. Questa mattina, quando ho letto “benvenuti alla struttura di allenamento dei Mets di New York” non ci volevo credere. Ma sta accadendo proprio a me, tutto questo?
Non so voi che sogno avevate da bambini. Se fare l'astronauta o il cardio chirurgo tipo Barnard; se dare un appuntamento a Marilyn Monroe o giocare con Gianni Rivera. Io avevo questo: entrare nel 'Camp' di allenamento di una squadra di Major League. Sono un ragazzo fortunato, mi sa.
Il nostro viaggio verso gli Stati Uniti è iniziato di buon mattino da Parma. Oddio, “buono” non è il termine più giusto per definire il mio mattino, visto che ho spento la sveglia (puntata sulle 5.40) e mi sono risvegliato alle 6.12, con appuntamento alle 6.30 per la partenza. Con il Capo Delegazione Cancelli avevo anche fatto il brillante: “Mi troverete a bere il cappuccino alle 6 e un quarto”. Ah, Ah.
Vestito con la tuta della nazionale, mi sono per altro piaciuto molto. Peccato che, appena salito sul pullman, l'istruttore del Cus Parma Butch Hughes (che è venuto a Malpensa con noi, ma non mi sono sinceramente preoccupato di scoprire a fare cosa) mi abbia apostrofato con un: “Mi ricordo di te…ma non eri più magro, una volta”. Buongiorno.
La comitiva azzurra suscita ben poca curiosità in Italia. Ci guardano un po', ma non c'è uno che chieda chi siamo. In compenso, appena saliti sul volo Continental per Newark, iniziano a scatenarsi gli americani. Che restano per altro delusi ad apprendere che non siamo una squadra di calcio. La domanda più frequente è: “Ah, si gioca a baseball in Italia?”
Da viaggiatore esperto ho trascinato buona parte del gruppo a sbagliare completamente le schede di immigrazione. A Newark l'addetta voleva uccidermi, quando ne ha dovuta correggere una decina.
Il meglio di me, però, lo stavo dando facendo “dimenticare” alla comitiva le valigie.
“Come, c'è scritto sul biglietto che vanno dirette a West Palm Beach”. E l'addetto alla sicurezza a insistere che la normativa era cambiata, i viaggiatori in transito dovevano riconoscerle. Ho fatto una figura talmente brillante, che mi ha chiesto se parlavo spagnolo.
In effetti, è necessario riconoscere i bagagli. I controlli di sicurezza sono pressanti, negli aeroporti statunitensi. All'imbarco per il volo diretto in FLorida un'addetta mi ha controllato con tanto di 'metal detector' manuale. Mi ha fin fatto togliere le scarpe. “Sai, ho scelto te perchè eri il più alto”. Splendida tecnica, cara mia.
Ci siamo imbattuti in diverse pattuglie di militari in assetto di guerra. Poi, dalle vetrate dell'aeroporto, abbiamo visto New York City in lontananza. Cosa posso dire, se non che la Grande Mela oggi ha un aspetto diverso dall'ultima volta che l'ho vista? Sembra una foto degli anni '30. Una tristezza, però, il fatto che l'Empire State Building sia tornato il palazzo più alto…
In aereo, finalmente, è successo. Il mio vicino di posto mi ha chiesto in che ruolo gioco.
“No…eh, eh, eh…io sono un giornalista, non gioco. Sa, l'età”.
A fianco a me si è seduta una signora che è americana ma risiede in Norvegia. Incredibilmente, nell'arco del volo per West Palm Beach, siamo riusciti a raccontarci le rispettive vite. “Ships that passed in the night”, direbbero i miei amici inglesi. Tanta confidenza e, presumibilmente, è la prima e ultima volta che ci siamo visti. Curioso, viaggiare in aereo. Oltre alle distanze chilometriche, sembra ridurre quelle tra le persone.
Un temporale ci ha fatto ritardare. Dopo lungo dibattito, abbiamo riconosciuto che gli Stati Uniti non hanno ancora l'ora legale. Quindi, siamo 7 ore indietro e la giornata è lunghissima.
Siamo arrivati a West Palm Beach alle 8 di sera. Ovvero, per noi le 3 del mattino. Senza paura, l'obbiettivo delle 24 ore di veglia diventa possibile.
Ad accoglierci abbiamo trovato John Di Mola, sangue napoletano nelle vene, il presidente della loggia dei “Figli dell'Italia” di Stuart, la cittadina che ci ospiterà.
La comunità italo americana attende la visita degli azzurri con molta curiosità. Non è così facile crederlo, ma per loro il nostro paese è davvero la madre patria, l'origine, la culla della loro famiglia.
John ha tanta buona volontà, ma avere a che fare con noi (stanchi e un po' diffidenti) non è facile. Oltretutto, il pullman che ci deve portare all'albergo è quanto meno curioso. Dotato di impianto ad alta fedeltà, è accessoriato con luci psichedeliche e quant'altro. “Cos'è, lo usano per i festini?” chiede qualcuno. E iniziamo a ridere.
La mia giornata non può finire prima delle 23.30 locali. Ovvero mattina inoltrata in Italia. Ho doppiato il 'capo' delle 24 ore, così il mio letto 'King Size' mi sembra il massimo dono che potrei chiedere se avessi a disposizione la Lampada di Aladino….
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