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Che valga la pena inventare il “baseball da un'ora e mezza”?

Ho letto su Baseball.it l'intervista che il presidente Fraccari ha rilasciato al nostro webmaster sulle problematiche del sistema, post verifiche internazionali.
Ed essendo stato proposto il mio pensiero al Presidente (per chi non sa: il mio invito è quello di non diventare matti con gli oriundi di vario tipo e vario pelo che si trovano tuttora nel globo), diventa naturale una sorta di diritto di replica.
Ebbene, reputo che Fraccari stia svolgendo bene la parte, difficile, molto difficile del traghettatore di anime baseballistiche dall'inferno al porgatorio.
Ha ragione quando dice “siamo qui da un anno e mezzo” con annessi e connessi, vale a dire correttivi di vario tipo spalmati su tutto il pianeta baseball nella speranza di fare in fretta, di cucire il presente con il passato.
La sua è la macchina della rifondazione, bisognosa più che mai di qualche stretta di mano del destino, che si concede tendenzialmente a chi ha coraggio.
E Fraccari ha coraggio.
Il problema è che tra il dire ed il fare c'è di mezzo quel grande guaio costituito dalla disgrazia di avere in mano uno sport che è vissuto di provvidenza per troppi anni.
Voglio spiegarlo bene questo concetto: la provvidenza è quella tal cosa che ti aiuta in modo cieco, è la mano del Signore, è il serbatoio naturale che l'Italia offre e garantisce cercando di affermarsi comunque.
E' per dirla rapidamente, una mamma dominicana che si innamora di un marinaio napoletano e decide di trasferirsi in Italia con il figlioletto, fortunatamente maschio; è un ragazzo di Caltanissetta emigrato in Venezuela che ha conservato con orgoglio la propria paternità regalando al tricolore buoni peloteros.
Ebbene, su quest'Italia del buon seme sparso nei vari continenti, si è fatto un dignitoso conto partendo dal presupposto che “loro” sono italiani come noi.
Ed è tutto vero.
Ciò che non risulta agli atti è però che il baseball italiano, quello del cortile di casa nostra, è sempre meno vivo e vegeto.
Ed allora viene naturale chiedersi se valga la pena di investire -le società innanzi tutto- quattrini da Miami a Caracas, per importare amici che poi tornano a casa, che garantiscono innanzi tutto costi e che mirano legittimamente al proprio tornaconto anche se patriottico, o se non valga la pena, invece, dirottare quelle risorse sulle problematiche del baseball che c'è sempre di meno.
Questo è il tema generale che viviamo oggi: un tema, ripeto, che Fraccari sta interpretanto in modo coerente e coraggioso, consapevole del rischio corrente che corre (gli schiaffoni contro la Svezia agli europei, lo scivolone contro la Francia agli europei juniores, i guai burocratici di oriundi che hanno documenti al bivio del buon senso, le buffonate di giocatori stranieri che si sposano con signore settantenni per diventare italici ecc).
Fraccari, detto per inciso, ha il dovere di proseguire su questa linea: ed il fatto che bene o male l'Italia sia l'unica nazione che al momento vanta sia baseball che softball promossi all'Olimpiade dice che questo presidente ha le palle.
Ma resta il problema di fondo; costruire ciò che non esiste, dare al baseball un'identità che non possiede, collocarlo nell'ambito delle cose che la gioventù conosce realmente.
Il baseball ha il grande dramma di non esistere nei canali della comunicazione canonica: chi non ha il possesso della TV, chi non si propone tra le cose che appartengono al banalissimo zapping, non esiste.
Ed il baseball, dunque, nella scelta ordinaria delle cose borghesi, non c'è.
E allora caro Fraccari, varrà la pena di inventare un qualcosa che permetta alla televisione di scoprire il baseball.
Partendo dai presupposti che hanno consentito ad esempio alla pallavolo di conquistare il minivideo, come?
Cancellando il vecchio regolamento e costruendo un piano di lavoro in piena sintonia con le esigenze della TV, partite che durano massimo un'ora e mezza.
E allora Fraccari, proponga alla RAI un baseball “da un'ora e mezza”, una partita veloce costruita solo per la TV, per entrare in quel gioco della comunicazione che vale l'accesso degli sponsor, ma non solo, che vale la vita borghese, perchè improvvisamente il baseball sarà noto, visibile, visto.
E poi nascano altre iniziative: esempio, il gioco del baseball da fare sulle spiagge, utilizzando le aree del beach volley, favorendo un contatto matematico con i giovanissimi.
Si rifondi in sintesi la linea della comunicazione: e se per coprire questi costi si dovranno spendere meno soldi per gli oriundi, amen.
Perchè questi denari, quello della comunicazione, saranno investiti sul nostro territorio.
Gli oriundi.
Ce l'ho con loro? No, sono contrario a tutte le formule alternative che, pur nel preciso intento di tenere in piedi la baracca (ed avere due sport che vanno all'Olimpiade significa perchè si sappia, la garanzia che il CONI darà grandi sostegni economici al baseball, già che si legge come un grande successo della politica federale) la rendono insincera.
Sono per un'Italia realmente, realisticamente italiana.
Sono contrario agli eccessi e tifo per le società, che devono imparare a pensare ai giovani e meno alla fascia Miami-Caracas.

mario

Nato a Torino nel 1946, è giornalista professionista dal primo maggio 1967 presso la testata Tuttosport di cui è stato redattore capo sino al 12 febbraio 2001.Specializzato in sport vari e marketing, è 'anche' presidente della Juve 98 di cui è stato, proprio temporibus lillipuz anche giocatore.Ha avuto inoltre il merito di portare il padre nel baseball (fu presidente della Juve Lancia per 17 anni) e i due figli che hanno giocato nella Juve 98.

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