Ho l'impressione di combattere una battaglia solitaria e senza speranza: quella che vuole inculcare il concetto che il baseball è un gioco semplice.
L'impressione si è fortemente ravvivata dopo una visita alla redazione di un canale di stato per accompagnare alcuni azzurri impegnati in una intervista. Ho provato infatti un senso di fastidio quando, telefonicamente, la conduttrice mi ha chiesto se i nostri avrebbero potuto portare guantoni, mazze e palline. Ho viceversa provato panico, terrore e scoramento quando di persona mi ha detto “dovremmo cogliere l'occasione per spiegare le regole del gioco”. Cioè: in 5 minuti di programma dedicate a 2 delle nazionali già qualificate per le Olimpiadi ci mettiamo a spiegare che “dopo 3 strike c'è l'out e dopo 3 out si cambia campo”. No, non ci sto.
Il baseball in Italia si gioca più o meno da 50 anni. E' assolutamente logico pensare che chi non ha imparato le regole non è in realtà interessato a questo gioco. Che per altro si può seguire con soddisfazione anche da neofita.
Ricordo la mia prima partita allo stadio: avevo 12 anni e si giocava Cercosti Rimini- Bernazzoli. C'era un giovanotto piccolino con la barba che lanciava fortissimo e ce n'era uno più grande (ma anche lui aveva la barba) che batteva fortissimo. Il loro duello mi entusiasmò (si chiamavano, e si chiamano ancora, Romano e Castelli) sia quando il lanciatore fece girare a vuoto il battitore, sia quando il battitore mandò la palla fuori dal campo.
Ricordo che con un amico ci eravamo divertiti tantissimo (specie seguendo il resto del pubblico nel grido: “Sal, Sal, Sal Var-ria-le”) nonostante ci sfuggisse quasi tutto, compreso il punteggio. Il rudimentale tabellone anni '70 aveva gli zero che sembravano degli '1' e ricordo che fu appunto il fuoricampo di Castelli, che portò il primo vero '1' sul tabellone, a farci capire che non si assegnava un punto automatico a inning.
Non conoscevo le regole. Per anni ho creduto ad alcune leggende metropolitane che mi sono state inculcate nei lunghi pomeriggi estivi passati a discutere se era meglio Laurenzi o Castelli con i miei cugini a Nettuno. Ad esempio, che dopo 99 foul ball il centesimo valeva come strike. Molto l'ho imparato “infiltrandomi” nei dug out di Giulio Montanini e Giampiero Faraone come raccatta mazze e finendo con il seguirli come un'ombra per ascoltare quel che dicevano. Cosa che faccio spudoratamente ancora, solo che non ho bisogno di “infiltrarmi” e, soprattutto, faccio molta più fatica a passare per ombra.
Mi volete far credere che sono io strano o particolare? Non ho mai vinto le gare di tabelline a scuola, nè amato particolarmente gli scacchi. Ho preso i miei bei '5' (le prime volte, piangevo pure) a scuola e non ho mai brillato sui cruciverba. Eppure a capire che il battitore per segnare deve toccare tutte le basi ci sono arrivato subito.
Capire il baseball non è questione genetica. Ed è anche ridicolo dire che “non è adatto a noi europei” (un mio amico americano sostiene per altro che noi europei concepiamo uno sport solo se coinvolge 2 porte e un pallone, ma l'affermazione è quantomeno snob…) perchè quando il baseball venne inventato (1875) gli americani ERANO di fatto europei. O diretti discendenti.
Capire il baseball è insomma qualcosa alla portata di tutte le persone di intelligenza normale.
Semmai, ci sono da fare altre considerazioni.
Il baseball è un po' come l'Opera Lirica o il Jazz: se si cerca di razionalizzarlo, si può imparare ad apprezzarlo. Ma è difficile che entusiasmi. Perchè? Nascendo come gioco (così come l'Opera e il jazz nascono come forma di intrattenimento popolare) deve essere concepito come forma di divertimento per tutti. Non è una scienza. O meglio, lo può anche diventare per un gruppo ristretto di persone (tecnici, studiosi del gioco) ma se si vuol sperare di fare “massa”, l'attrattiva deve essere diversa da concetti tipo “mi inebria il profumo della terra rossa appena dissestata…tu che non hai almeno 43 campionati alle spalle non mi puoi capire”. Il pubblico ha bisogno di esaltarsi per chi tira forte, corre forte, lo fa esultare e (perchè no?) lo fa arrabbiare.
Il baseball, concludendo, non è per pochi. Siamo noi (intesi come movimento) che cerchiamo di farlo rimanere per pochi. Riuscendoci purtroppo benissimo.
Gli americani invece riescono a far credere che siano 'per tutti' (e forse qui sta la differenza) le cose più incredibili.
Leggevo dichiarazioni del Presidente George 'daboliu' Bush a margine delle nuove (per modo di dire, non è che Schiaparelli col suo telescopio avesse scoperto cose particolarmente diverse) informazioni arrivate dal pianeta Marte. L'ex genio del mercato del baseball (cedette Sammy Sosa) e attuale rivale del nostro Presidente del Consiglio nella gara a chi la spara più grossa si è un attimo eccitato di fronte alla prospettiva che su Marte ci sia vita (qualche batterio, mica omini con le antenne…) e ha chiesto alla NASA di progettare una base lunare che funga da punto di partenza per le missioni su Marte. Tra le altre cose, 'daboliu' pensa ci possa stare anche un albergo per turisti.
Sono invidioso per chi ci andrà, perchè persino l'avventato George non pensa sarà pronto prima del 2050 (veleggerò all'epoca verso i 90 anni, ammesso che l'alimentazione a base di crostacei imposta dai Vertici Federali non mi abbia già fatto passare al creatore). Anzi, vi confesserò che andare nello spazio è il mio vero e proprio sogno nel cassetto.
Per questo, propongo al popolo dei miei lettori se vuole iniziare una colletta per aiutarmi almeno ad approdare alla stazione spaziale orbitante. Si tratta di raccogliere solo 20 milioni di euro. E ne ricavereste un diario 'in assenza di gravità' che potrebbe essere sensazionale.
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