Il "nostro" Classic

Riccardo gira con l'inseparabile zainetto sulle spalle, Maurizio senza la mela al mattino, i "nachos" e le "quesadillas" durante la giornata non sa stare, Filippo passa metà del tempo al telefono da bravo uomo della comunicazione, Gianni scambia mail col capo cercando di far pubblicare i pezzi, Paolo non viene se non va prima a correre e Michele la notte monta accuratamente i servizi video. Le giornate del World Baseball Classic viste dai giornalisti italiani al seguito degli azzurri sono anche questo.
O soprattutto? Mattina a scaricare la posta collegandosi (con difficoltà) al wi-fi dell'hotel. Qualcuno s'avventura in palestra o in piscina al 18° piano, scopriamo solo dopo tre giorni che si arriva all'immenso Eaton Center anche senza uscire dall'albergo. Del resto il freddo non manca, meglio stare riparati. Mail, telefonate, pezzi da scrivere o aggiornare anche per il web, un giro all'Eaton – che libreria, ragazzi, con riviste e libri di baseball… – e la mattinata è andata.
La gara s'avvicina, tutti sul "media shuttle" che porta allo stadio. Guai perdersi l'occasione di poter stare in campo e parlare con i protagonisti – molti di grande lega – fino a pochi minuti prima della gara. Pensi a cosa succederebbe in Italia…
E come saresti trattato in qualsiasi stadio rispetto alla massima disponibilità che trovi qui, dove a coordinare tutto c'è Nadia – genitori italiani e Belpaese nel cuore – ma tutti i "guys" ti assistono per ogni necessità. All'arrivo cambiano ogni giorno il colore di un piccolo nastro dopo aver controllato per motivi di sicurezza il contenuto delle nostre borse. Cosa ci sarà mai oltre ai computer? Ma la "macchina" del Rogers Centre non permette sbavature.
Si arriva in tribuna stampa, lato baseball (un paio di posti assegnati inizialmente lato football ci sono stati subito cambiati, la visuale sul diamante non era delle migliori), si salutano i colleghi tra i quali anche uno famoso come Tom Verducci, "colonna" di Sports Illustrated e autore tra l'altro di un libro con Joe Torre sugli Yankees. I venezuelani sono i più simpatici – Carlos e Efrain – ma il "nostro" Paolo non lo batte nessuno. Lui quand'è partito dall'Italia (Sicilia, Trapani) neanche sapeva cosa fosse il baseball. Arrivato negli Usa ci racconta come sia stato "costretto" dalle ragazze che ha conosciuto a frequentare gli stadi e oggi fa ancora fatica a tradurre alcuni termini del gioco dall'americano all'italiano. Si prodiga a portarci dolci e frutta dal buffet alle nostre spalle, mentre noi andiamo tra Canadian dry, succo d'arancia e Coca cola. Non trovi acqua neanche a pagarla.
L'Italia vince con il Canada e tutti vengono a chiederci del baseball di casa nostra, di come sarà presa questa notizia, di quanto seguito c'è. E' la nostra serata, prima ancora che finisca la gara andiamo in onda anche su ESPN America grazie alla bandierina tricolore "piantata" sulla nostra postazione notata dal regista. Wow! Ci arriva un messaggio di un collega canadese con i parenti ancora in Italia, Jeremy: "Siete stati visti in televisione dappertutto in America".
Riccardo con la casacca azzurra gira con lo zainetto, batte il cinque, Filippo "bracca" i protagonisti nella "informal interview area", Gianni, Maurizio e Paolo corrono alla "press conference". Che ora è adesso in Italia? E chi ci fa più caso, c'è da trovare un locale per mangiare qualcosa con le immancabili "fries", patatine fritte che qui servono sempre. Vai col taxi, perché il "media shuttle" se n'è andato da un pezzo. Scomparirà anche dall'hotel.
Si va a Niagara Falls o no? E la CN Tower? Macché, roba da turisti. E poi l'Italia è qualificata, magari si fa il miracolo, chi andrebbe a Miami? Il Venezuela ci riporta sulla terra, i colleghi sudamericani se ne vanno soddisfatti, stavolta siamo noi a fare i complimenti. L'ultima gara è tra loro e gli Usa, la nostra tensione è finita la sera prima. E' ora di prendere gli ultimi regali, preparare le valigie, tornare a casa. Ciao Toronto, è stato bello.

Redazione

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