Federico è un ragazzo come tanti altri se ne vedono in giro tra le vie e le piazze delle città del nostro Bel Paese. Giovani a volte chiassosi che sostano ore davanti i bar, tra una birra e una sigaretta il sabato sera. Un ragazzo come tanti altri, ma che diversamente da molti suoi coetanei, gioca a quello sport un po' bizzarro chiamato baseball. Diciassette anni trascorsi tra i campi assolati di tutt'Italia e non solo: finali scudetto giovanili, la promozione ottenuta lo scorso anno in serie A2 con il Verona, la sua squadra, le convocazioni in nazionale…
La storia di un "veneto in America" parte proprio dal fondo di questa breve excursus. È in occasione dei Mondiali juniores, disputati la scorsa estate ad Edmonton in Canada, che Federico Castagnini incontra per la prima volta il baseball delle high-school statunitensi. Un volo lo porta direttamente Denver, capitale dello stato del Colorado, dove trascorrerà i successivi 9 mesi frequentando il liceo di Longmont e giocando nella prima squadra degli Skyline. A dir la verità, come sempre, la storia è un po' più complicata di come appare. Erano già alcuni anni che i genitori di Federico, papà Paolo (direttore sportivo dei Dynos Verona e consigliere federale FIBS) e mamma Giovanna (presidente del Centro Frozen Ropes di Verona), stavano cercando di offrire un'opportunità al proprio figlio, ma le complicazioni burocratiche avevano reso il percorso ricco di insidie. Fino al giorno in cui ciò che sembrava poter essere solo un sogno si è avverato: è stata individuata la città, la scuola e la famiglia ospitante…
"Devo ammettere che l'impatto con la nuova realtà è stato più semplice del previsto – racconta a Baseball.it Federico, da poco rientrato in Italia – L'emozione per un'avventura che comincia, la voglia di scoprire abitudini diverse, di conoscere e fare nuove amicizie come se fosse un anno zero mi hanno aiutato tantissimo a superare il momento del distacco dalla mia famiglia".
Innanzitutto, come ti sei trovato con la famiglia che ti ha ospitato durante l'anno scolastico? "L'accoglienza è stata delle migliori, la mia fortuna è stata quella di essere capitato nella famiglia dell'allenatore degli interni e della battuta per la squadra del liceo in cui ho giocato. Per di più suo figlio sarebbe stato mio compagno di squadra, meglio di così…"
E la scuola? Hai riscontrato particolari difficoltà con lo studio e l'apprendimento? "Lasciatemi dire subito una cosa: i licei e, penso anche i college, statunitensi sono tutti preparati ad accogliere studenti provenienti da tutto il mondo. Noi italiani siamo forse più mammoni, non a caso siamo tra gli europei che meno approfittano dei programmi di scambio culturale con gli States! Detto ciò a parte le normali difficoltà iniziali con la lingua si entra subito in sintonia con i ragazzi locali, in fin dei conti abbiamo la stessa età e questo aiuta molto".
E lo studio? Federico sorride: "Vabbè, è sicuramente meno difficile rispetto all'Italia. I compiti in classe sono diversi, viene premiato maggiormente il lavoro a casa e quindi si ha più tempo per svolgerli… però sono molto esigenti sui voti: se hai più di tre insufficienze non giochi, non ci son santi che tengano. Devi recuperare le tue insufficienze se vuoi anche solo tornare ad allenarti".
Parliamo di baseball, allora. Come hai conciliato studio e pratica sportiva? "Gli allenamenti si fanno tutti i giorni nel primo pomeriggio. Tutti i giorni. Le partite poi si disputano anche durante la settimana. C'è molto agonismo e si è fortemente orientati al risultato: vincere".
A quale campionato paragoneresti quello che hai disputato tu? "Io ero inserito nella prima squadra del liceo. Ne esistono altre due di livello inferiore dove giocano i più giovani oppure i meno bravi. Ecco, nella mia formazione avevamo un lanciatore che toccava anche le 95 miglia… Direi che avremmo potuto disputare un buon campionato nella serie B italiana, al passo delle migliori formazioni".
Un ottimo livello di gioco per una squadra di ragazzi tra i 17 e i 19 anni… "Il punto è questo. Non conta, diversamente da noi, il singolo fondamentale oppure avere una bella difesa. Come dicevo conta vincere e tutto, anche gli allenamenti, è indirizzato verso questo scopp. Io, che in Italia gioco tipicamente interbase, mi sono trovato anche ad essere utilizzato come lanciatore partente oppure closer. Tutti devono poter ricoprire più ruoli e, in fin dei conti, quando si è giovani non è scritto da nessuna parte che uno nasce esterno e per tutta la vita giocherà in quel ruolo".
Ora sei nuovamente in Italia, per quanto pensi di fermarti? "Resterò in Italia fino a fine agosto, anche per cercare di essere utile ai miei compagni di squadra del Verona, quest'anno in serie A2. Poi tornerò a Denver. Voglio completare le superiori negli States e poi provare ad entrare in qualche college con una borsa di studio".
Sembri soddisfatto della scelta. Consiglieresti vivamente quest'esperienza anche ad altri? "Un'esperienza favolosa. Ho imparato una lingua, ho studiato, ho giocato allo sport più bello che ci sia ed in un Paese che mi ha accolto da subito a braccia aperte, senza discriminazione alcuna. E poi ci sono anche le ragazze…"
Ecco, questa è un'altra bella storia da raccontare successivamente…
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