De Franceschi appende il guantone al chiodo

L'appuntamento è in Piazza Mazzini intorno a mezzogiorno, cuore pulsante di Nettuno e più che mai in un sabato mattina di gennaio ma dalle temperature primaverili. Così succede che alle undici e mezza siamo tutti e due già lì. La cosa che doveva dirci la sapevamo tutti e due da un bel pezzo, mancava solamente l'ufficialità che ha tardato un po' troppo ad arrivare, dopo che era stato fortemente voluto dal manager Bagialemani e la sua scelta era stata avallata in toto dalla dirigenza tirrenica. "Benvenuto, coach".

Anche gli highlander, alla fine, appendono il guantone al chiodo. Roberto De Franceschi passa dal campo alla panchina, che non equivale a dire dalla padella alla brace. Gli inizi di carriera come ricevitore, poi uno dei migliori esterni centro italiani di tutti i tempi. Ci eravamo effettivamente chiesti chi tra i due si sarebbe ritirato prima. Se lui da giocatore, o chi scrive da cronista di baseball.

Si dice che a fine carriera si tira una riga e si trae un bilancio. Eccoli allora i numeri, quelli da Hall of Fame immediata forte di una sequela di record individuali, alcuni dei quali crediamo difficilmente superabili. I primati che lo riguardano parlano di 1.369 partite giocate, 10.169 inning, 5.141 presenze alla battuta, 1.548 battute valide, 322 doppi, 80 bunt di sacrifico e… 123 volte colpito. Forse quello al quale teneva meno. Mentre è secondo con 1.070 punti segnati, ma unico insieme a Roberto Bianchi ad aver toccato il piatto di casabase per oltre mille volte. Ha giocato per 27 anni, iniziando nel 1984 e finendo nel 2010. Dopo 6 scudetti, 3 Coppe Italia, 3 Coppe dei Campioni, 3 Coppe Ceb, 2 Supercoppe Ceb, una media battuta vita di 302 e una sfilza di Guanti d'Oro. E con la nazionale la vittoria all'Europeo del '97, un quarto posto al mondiale del '98, due Olimpiadi, tante altre kermesse per 109 presenze complessive. Numeri di fronte ai quali tutti dovrebbero togliersi il cappello.

Che altro dire? "Che adesso sono il batting coach della squadra, utile per i ragazzi più giovani e anche per i giocatori ai quali spesso non c'è nulla da insegnare, ma che si trovano ad attraversare momenti particolari durante un campionato".

Quando ti sei reso conto che quella del batting coach è una figura importante in una squadra?

Quando venne Jeff Ransom nel '90. Ci parlò di molti aspetti a noi sconosciuti della tecnica di battuta. Ci insegnò l'inside-out sulle palle interne, soprattutto a curare ogni aspetto dello swing. Andavamo al pomeriggio presto al campo e teneva a me e altri compagni questa specie di clinic, e lì capii che il lavoro sui particolari è importante. Tra l'altro, soprattutto con i giovani, è bene lavorare su un aspetto alla volta per avere dei progressi graduali ma sempre costanti.

Un ruolo che ti calza a pennello… Nemmeno c'era l'ufficialità e già passavi i pomeriggi con i ragazzi del settore giovanile a lavorarci su. Anche adesso sei in tuta ginnica…

E infatti in settimana vado pure alla Coach Convention…

Appunto… Ma parliamo della carriera. Ci dici quali sono stati i tre momenti più belli?

Sicuramente la partecipazione alle due Olimpiadi (Atlanta '96 e Sidney 2000, nda), perché credo che sia il sogno di ogni atleta. Poi sempre con la nazionale la vittoria all'Europeo del 1997. Mentre con il Nettuno la scelta può essere solamente una. A dire il vero ce ne sarebbero tanti da snocciolare, ma le emozioni dello scudetto del 1990 credo che siano state irripetibili.

Ma dai, non l'avremmo mai detto…

Penso di essere quasi svenuto in campo per la gioia. Il titolo mancava a Nettuno da 17 anni, erano già due o tre stagioni che ci andavamo vicini, ma non riuscivamo a raggiungere l'obiettivo. In questo senso Giampiero Faraone ci seppe dare la sicurezza che il lavoro che stavamo facendo era quello giusto. Eravamo un gruppo cresciuto insieme sin dalle giovanili, ci mancava un po' di esperienza e forse un parco lanciatori più profondo.

Eppure quella stagione era nata in sordina.

Arrivò come un regalo dal cielo la persona che ci fece cambiare passo, e soprattutto mentalità. Bob Galasso ci raggiunse coperto dallo scetticismo vista l'età avanzata e il fatto che era il terzo lanciatore cambiato quell'anno, e non era nemmeno iniziato il campionato. Ci insegnò anche lui tantissime cose, oltre ad essere un pitcher e un campione di assoluto spessore.

Cosa ricordi di quel pomeriggio di novembre a Rimini?

All'ultima ripresa Ceccaroli batté valido su di me, mi misi inginocchiato in presa di sicurezza per non far passare la palla, visto che c'erano due uomini in base. E per non rischiare nulla tirai al taglio, a Ruggero Bagialemani, facendogli arrivare la pallina con due rimbalzi. Ed era ad una ventina di metri da me… Non volevo rischiare nulla, ma sarei un bugiardo se negassi che la palla pesava come un macigno. Manco a dirlo Ruggero mi fulminò con lo sguardo.

E quando Trinci prese al volo quel foul? Un'immagine che è entrata nella storia del baseball nettunese.

L'ho detto, impazzii letteralmente. E in pochi istanti ci trovammo sommersi dai nostri tifosi che ci avevano seguito sino lì e che in due secondi invasero il campo.

E momenti brutti della carriera? Mi verrebbe da dire quella finale persa a garatre al torneo di slow pitch in cui nella Tribe giocavamo insieme… Ma assodata quella (e si ride tutti e due, nda), rimanendo in ambito un po' più "elevato"?

Garasette delle finali del '99. Su come sono andate le cose si è detto e si è scritto abbondantemente. So solo che quello che successe in quella partita mi… spezzò letteralmente il cuore.

Infortuni?

Uno solo, veramente serio. Quando alle Olimpiadi di Atlanta venni colpito in pieno volto, mi si ruppe lo zigomo e fui costretto ad uscire dal campo in barella. Il medico poi mi disse che sarei dovuto rimanere lontano dal campo per almeno 40-50 giorni, ed invece alla ripresa del campionato la settimana successiva giocai con il parafaccia. Non volevo rimanere fuori per nessun motivo.

Quale pensi che sia stato il tuo migliore anno in assoluto?

Credo il 2001. Dopo anni in cui ero lead off Faraone mi spostò quarto in battuta. Mi diede una responsabilità che seppi ripagare con ottime medie e tanti punti battuti a casa. E dire che non ero abituato ad un ruolo di clean up. Vincemmo quello scudetto al termine di una stagione fantastica. Il Rimini ci era superiore, ed eravamo sotto nella serie per 2 partite a 0. Ci fu in garatre un singolo episodio che girò l'inerzia della serie e ci diede nuova forza, poi Faraone prese in mano la squadra chiamando le giocate giuste al momento giusto. Noi lo abbiamo vinto sul campo, ma quello che fece Giampiero dalla panchina non è mai stato degnamente celebrato.

Nel 2004 ci fu quel trasferimento a Grosseto. Se ne parlò e se ne polemizzò per mesi…

Fu un colpo al cuore anche per me, perché ero il capitano di quella squadra e non fu una decisione facile. Ma arrivava in un momento della mia carriera difficile, in cui personalmente volevo provare sensazioni e giocare con stimoli diversi. So che molti tifosi non hanno mai accettato la mia partenza. A Grosseto sono stato benissimo, e quando torno ricevo sempre applausi convinti ed affettuosi.

E dei tre anni col Godo?

– Lì vinsi tre piccoli scudetti. Perché a Godo l'obiettivo era la salvezza e nelle partite fondamentali, gli scontri diretti, ci misi sempre del mio con battute decisive. Col senno del poi, posso dire che i miei anni trascorsi fuori mi hanno allungato la carriera e dato altri stimoli per continuare a giocare. Sino allo scorso settembre, appunto.

E adesso, che hai appeso il guanto al chiodo?

Spero innanzitutto di aver lasciato un buon ricordo come giocatore, al di là dei numeri e dei record. Mi piace la politica che sta facendo adesso la società del Nettuno, puntare sui giovani. Con l'Accademia Invernale ho avuto già la possibilità di lavorare con loro e li vedo già ben impostati, molto smaliziati. Noto delle grandi analogie con quel gruppo che poi negli anni '90 vinse tutto. Certo, prima con un solo straniero in campo, due quando c'era la partita riservata, giocavano molti più italiani, e a Nettuno significava veder giocare i ragazzi del posto. Anche per questo che lo stadio era sempre pieno. Credo che se le regole sui tesseramenti fossero rimaste quelle dei primi anni '90, avremmo vinto molto di più perché considerati i soli italiani la potenza di quel gruppo era veramente enorme.

A proposito, ci hai fatto perdere un'altra scommessa. A chi tra te e Masin, ultimi superstiti in campo di quella squadra meravigliosa, si sarebbe ritirato per primo.

Voglio mandare un messaggio a Massimiliano. "Tieni duro!". A parte gli scherzi, è un grande giocatore ed un esempio che i giovani dovrebbero seguire per impegno e abnegazione. E credo che al di là dell'età possa ancora dare molto alla causa del Nettuno.

Di cose da dire ce ne sarebbero ancora a centinaia. Anche su quegli scomodi retroscena che avevano messo addirittura in forse il suo ingresso nello staff tecnico. Roberto è prima di tutto un gran signore e dribbla abilmente le polemiche. Acconsentiamo e lo salutiamo. Lo attende lo studio, la coach convention, il lavoro sullo swing, definito non a torto il gesto tecnico più difficile tra tutti gli sport. Certo, dopo tanti anni, farà un certo effetto sapere di non poterlo più rivedere in campo ma ad osservare la partita dalla panchina. La consapevolezza è che però, dietro ogni futura battuta valida del Nettuno, c'è in qualche modo ancora il suo zampino.

Mauro Cugola

Nato tre giorni prima del Natale del 1975, Mauro è laureato in Economia alla "Sapienza" di Roma, ma si fa chiamare "dottore" solo da chi gli sta realmente antipatico... Oltre a una lunga carriera giornalistica a livello locale e nazionale iniziata nel 1993, è anche un appassionato di sport "minori" come il rugby (ha giocato per tanti anni in serie C), lo slow pitch che pratica quando il tempo glielo permette, la corsa e il ciclismo. Cosa pensa del baseball ? "È una magica verità cosmica", come diceva Susan Sarandon, "ma con gli occhiali secondo me si arbitra male". La prima partita l'ha vista a quattro mesi di vita dalla carrozzina al vecchio stadio di Nettuno. Era la primavera del '76. E' cresciuto praticamente dentro il vecchio "Comunale" e, come ogni nettunese vero, il baseball ce l'ha nel sangue.

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