Vorrei un baseball…

Vorrei un baseball di tanti, anzi, di tantissimi e non un baseball praticato da pochi e seguito da pochissimi. Vorrei un baseball che parli soprattutto italiano, anche nei dugout, pure in Nazionale, soprattutto in Nazionale. Che vincere una partita in più con un giocatore che fino a quache giorno prima prendeva il sole in California mi fa male al cuore e mette in crisi il portafogli. Vorrei un baseball che fosse unito per guardare con fiducia il domani, che il destino e lo sviluppo di uno sport non si può decidere in quattro gatti: per rimuovere il peso di un passato ingombrante serve l'aiuto di molti e la comprensione di tutti.
Vorrei un baseball nel quale i grandi del passato si mettano a disposizione di un progetto di rinnovamento del settore tecnico e arbitrale. Loro ad indicare la direzione da seguire, che l'esperienza è un patrimonio da tutelare, sempre, senza se e senza ma. Gli altri, i più giovani, a prendere nota e a fare squadra, che la fiducia si conquista con i fatti, non con le parole.
Vorrei inoltre un baseball, ma chiedo scusa se chiedo troppo, che non sia una questione privata tra sei società. Il baseball in Italia non si gioca soltanto in Emilia – Romagna. Certo, da quelle parti si pratica (e si pensa) molto meglio che altrove, ma vuoi mettere la soddisfazione di regalare una gara a cinque stelle anche al pubblico di Firenze, di Milano, di Torino, di Genova, di Napoli e via di questo passo? Ok, i costi lieviterebbero fino a diventare improponibili, ma se dovessi scegliere, preferirei meno fuoriclasse (o presunti tale) e un livello un po' più basso e tanta gente nuova in più, che magari si presenta con la curiosità e la volta dopo torna per convinzione.
Vorrei un baseball che non si spaventasse di fronte alla parola marketing, perché non c'è niente di male ad imparare a vendere un prodotto che oggi funziona così così e domani potrebbe funzionare meglio. A proposito, passo indietro. Il baseball non è soltanto uno sport, ma pure un prodotto da piazzare al migliore offerente per incassare quattrini. Il denaro non è mai sporco per definizione. Serve a finanziare progetti e a migliorare l'esistente. Vale a dire gli stadi, i campi. Non per stipendiare l'ennesimo oriundo in cerca di ingaggio nel Bel paese.
Vorrei un baseball che avesse il coraggio di dire "così non va, ricominciamo assieme". Non mi piace chi predica il verbo dell'assoluto e stabilisce il confine tra il possibile e l'impossibile. Che di sogni e di speranze si vive, il resto è quotidiano che si trascina e aspetta di morire tra gli applausi dei soliti noti. Vorrei un baseball che potesse concedersi il lusso di parlare di se stesso attraverso riviste, programmi tv, siti Internet. Vorrei correre in edicola ad acquistare Tuttobaseball. E pagare con gioia il necessario per godere dello sport che amo al prezzo che serve. Perché il professionismo e il talento costano. Sempre. Ed è giusto che chi lavora meriti rispetto e considerazione.
Vorrei un baseball che si prenda in giro, che si diverta con la serietà e l'impegno di chi sa cosa fare e come. Vorrei un baseball con il sorriso. Credete sia possibile?

Dario Pelizzari

Suo padre giocava a baseball, e pure bene. Lui, no, al baseball ha preferito il calcio, che però gli ha dato poco. Scrive praticamente da sempre, da quando qualcuno gli ha detto che con la penna non se la cavava male. E' nato nel 1975, vive e lavora Torino come giornalista freelance. Tifa Florida Marlins e legge Zagor, che intende imitare, prima o poi.

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Dario Pelizzari

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