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Nettuno piange il suo "Cittadino"

Sapere che non c'è più un po' di effetto lo farà. Chissà, alla prossima partita in casa i tifosi deporranno un mazzo di fiori sul suo solito posto allo stadio. Ma sapere che Rolando Belleudi, alias "Il Cittadino", non c'è più, beh la cosa l'effetto di cui sopra lo fa. Se l'è portato via un brutto male, i famigliari hanno tentato anche di fargli vedere per l'ultima volta la processione di Nostra Signora delle Grazie a Nettuno, la settimana scorsa, senza riuscirvi purtroppo. Quindi, stamattina, la notizia che nessuno voleva sentire. Il Cittadino a 86 anni ha deciso di lasciarci.

Era conosciuto, rispettato e anche ammirato, perché no, da tutti i giocatori d'Italia che hanno giocato sul campo del Nettuno. Un personaggio vero, solo nel bene e mai nel male. Dotato di una forza (intesa come muscolare) impressionante. Chi faceva a braccio di ferro contro di lui le buscava, volentieri e spesso. Per ricordarlo e per far capire a chi non lo conosceva di chi stiamo parlando, vi lasciamo questi flash, raccolti in interviste storiche, chiacchierate informali, risate e incazzature prese guardando il Nettuno. Lui dalla fine degli anni '40, chi scrive molto più modestamente dal campionato del '76. Il primo utile… Accidenti, se ci mancherà.

"Do you know raianne?". La guerra, che brutta cosa. Però a Nettuno lasciò in eredità il Gioco. Rolando, giovanotto più intraprendente degli altri, si era avvicinato alle truppe statunitensi per collaborare sul fronte e magari per ricevere qualcosa da mangiare in più, visto che per la fame qualcuno osava anche attaccarsi alle raianne, parola che in gergo nettunese indica i frutti della quercia. La disperazione era enorme. E Rolando scoprì il baseball rispondendo da solo ad una domanda, come ebbe modo anche di dire quando lo intervistarono per il film "City of Baseball". Questi, gli americani, la guerra non la facevano con le mazze e con le palle, come sembrava a prima vista. Semplicemente giocavano. E fu amore.

"Bum, fuoricampo". Trovato lavoro presso il Cimitero Americano di Nettuno, seguì di fatto le sorti della squadra dall'inizio, da quando venne presa in carico prima dal tenente Charles Butte, quindi dal "mago" Horace McGarity. Quando staccava di lavorare, andava a dare una mano a sistemare il campo di gioco. Che fosse quello di Villa Borghese prima, o di via Cisterna poi, poco importa, c'era da dare una mano e lui la dava. E così seppe anche della visita di Di Maggio a Nettuno, e assistette a quella epica sfida con Carlo Tagliaboschi. Lo disse chiaramente, le palline finirono a mare e si rischiò di esaurirne la scorta, che ai tempi tendeva ad essere esigua.

"Non ave' paura". Gli anni passano, così i decenni. Sempre lì al suo posto, cappellino dei Baltimore Orioles, giacchina se faceva freddo, maglia se faceva caldo. Arrivava allo stadio con il motorino, l'unico mezzo di trasporto che concepiva realmente. Prima un mitologico Boxer della Piaggio, quindi con un più moderno scooter per il quale però, confessione fatta a chi scrive, non è che inizialmente nutrisse particolare attaccamento. Andava come andava, dalla prima all'ultima palla ad incitare la squadra. Era una voce costante, di incitamento, di supporto, anche di suggerimento. Tanti ricevitori ci hanno confidato che se qualcuno tentava di rubare la base, lui era il primo ad avvertire i giocatori, ancor prima che dal dugout. Il suo grido anticipava quello di tutti gli altri.

"Lo vedi che nun è bono?". Sempre attaccato al Nettuno, leale nell'incitamento senza mai offendere l'avversario. Oddio, ne metteva in risalto i difetti. Ma era uno sportivo nato, in entrambi i sensi. Amava tutti gli sport, amava Nettuno in maniera viscerale, e per il baseball nutriva un affetto particolare. Lo si incontrava al mattino in piazza Mazzini e nei dintorni, e non si poteva non parlare con lui di baseball e delle sorti della squadra del cuore. Anche chi scrive lo ha fatto finché ha potuto, sino all'ultima occasione possibile. Volergli bene risultava veramente facile, anche perché dai giocatori pretendeva esclusivamente il massimo in termini di impegno, e di cuore. Che poi si vincesse o si perdesse, poco importava a quel punto. L'importante era mettercela tutta.

"Pallacce, pallacce". Se mai esisterà un angolo di Paradiso riservato ai tifosi del Nettuno, forse è questo qui. Vecchio campo degli anni '80, quello con le tribune attaccate al terreno di gioco. Rolando al suo solito posto, seduto sulla ringhiera del lato di prima base, proprio sul punto di incrocio con quella discendente, all'angolo. Un esercizio di raro equilibrismo che durava per ore. Provare per credere, chi a parte lui ci resisteva più di 5 minuti era considerato un fenomeno. Lui ad incitare senza tregua, sotto il sole estivo. Mario Sanges, detto anche "Puci Puci", dall'altro lato ai tamburi. E il fischiettatore designato che al megafono intona le battute conclusive di España Cañi, il paso doble che si sente spesso nelle plaza de toros , facendo battere le mani a tutto il pubblico. La corrida può iniziare. L'avversaria è il toro, il Nettuno è il matador. A volte il torero viene incornato, okay, ma nella vita le cose a volte vanno così…

Mauro Cugola

Nato tre giorni prima del Natale del 1975, Mauro è laureato in Economia alla "Sapienza" di Roma, ma si fa chiamare "dottore" solo da chi gli sta realmente antipatico... Oltre a una lunga carriera giornalistica a livello locale e nazionale iniziata nel 1993, è anche un appassionato di sport "minori" come il rugby (ha giocato per tanti anni in serie C), lo slow pitch che pratica quando il tempo glielo permette, la corsa e il ciclismo. Cosa pensa del baseball ? "È una magica verità cosmica", come diceva Susan Sarandon, "ma con gli occhiali secondo me si arbitra male". La prima partita l'ha vista a quattro mesi di vita dalla carrozzina al vecchio stadio di Nettuno. Era la primavera del '76. E' cresciuto praticamente dentro il vecchio "Comunale" e, come ogni nettunese vero, il baseball ce l'ha nel sangue.

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