Ci sono scrittori, anche prolifici, che per tutta la vita sembrano aver lavorato in realtà alla costruzione di un unico, grande libro. Indubbiamente John Fante è uno di questi: l'insieme della sua opera, dal suo romanzo d'esordio ( Wait Until Spring, Bandini! , 1938) fino a Dreams from Bunker Hill (il libro che nel 1982, ormai cieco, dettò sul letto di morte a sua moglie Joyce), ci appare come una continua variazione su un pugno di personaggi e su alcuni temi scelti, tutti segnati da un forte autobiografismo. L'eterno protagonista dei suoi libri è il bambino (poi adolescente, poi uomo maturo) che si chiama di volta in volta Arturo Bandini o Dominic Molise, nato in Colorado da un muratore italiano e una madre italoamericana, che sogna immancabilmente di diventare un giocatore di Major League. È quanto ritroviamo in uno dei suoi migliori romanzi, 1933 Was a Bad Year, composto negli anni '60 ma pubblicato solo postumo assieme ad altri materiali che la vedova di Fante rinvenne nei cassetti dello scrittore (in Italia è stato tradotto con due titoli diversi: Un anno terribile nell'edizione della Fazi del 1996, e 1933 Un anno terribile, in quella dell'Einaudi del 2008).
Dunque, Dominic Molise ha diciassette anni e vive a Roper, Colorado. Sta per finire le superiori e suo padre vorrebbe prenderlo a lavorare con sé. La calce e i mattoni della ditta Molise & Figlio: ecco cosa lo aspetta nel futuro. E poi c'è il resto della famiglia: una madre succube che soffre per i tradimenti del marito, una nonna abbruzzese che non parla quasi inglese e maledice costantemente in italiano l'America, il paese pieno di peccatori che Dio ha castigato con la Depressione. Fuori di casa Dominic non può evitare di comparare la propria situazione con quella dei suoi ricchi amici WASP, con quella di Ken e di sua sorella Dorothy, l'elegante ragazza ventitreenne di cui egli è pazzamento innamorato.
Ma Dominic Molise è anche il miglior lanciatore della scuola e assieme a Ken vuole fuggire in California, dove i Cubs terranno fra poco lo spring training, per presentarsi a un provino. Difatti Dom ha un braccio eccezionale, anzi ha "The Arm", Il Braccio, una parte di sé che cura con attenzione, massaggia continuamente con il Linimento Sloan, esercita in inverno lanciando al coperto su una pista da bowling con l'aiuto di Ken che gli fa da catcher. E nei suoi deliranti monologhi solitari (il romanzo, come quasi tutti i libri di Fante, è narrato in prima persona) Dominic giunge persino a parlare con Il Braccio. E questi lo consola, lo rassicura, gli annuncia un futuro splendido che lo riscatterà dalla miseria.
Il baseball è tutto ciò che Dominic Molise possiede, è il suo universo, la misura del suo mondo, quanto ha di meglio da opporre (lui, un piccolo "wop", un povero figlio di immigrati) alla cultura "alta" della "gente per bene" di Roper. Ma con esiti patetici: quando visita la casa di Ken e Dorothy non può non notare sugli scaffali della loro biblioteca i libri di Hemingway, Caldwell, Bromfield, Waugh, così diversi dalle sue letture chiaramente improntate dalla scuola cattolica che frequenta: Quo Vadis, La vita di Santa Teresa, Ivanhoe… Cerca comunque di darsi un contegno, e quando Dorothy gli dice che il suo scrittore preferito è James Joyce, lui prova a interloquire e le domanda a bruciapelo: "Vuoi dire Jim Joyce, l'interbase de St. Louis Browns?"
Come ogni adolescente irrequieto, il nostro Dominic ha sbalzi di umore, è istrionico, esibisce il proprio ego nei rapporti con gli altri ed è in preda ad eccessi edipici nei confronti dei propri genitori. Ma nella costruzione delle bizzarrie del personaggio, Fante ha sicuramente attinto non solo alla propria biografia, ma anche a una serie di ricorrenze intertestuali rintracciabili nel folklore del baseball, poi raccolte anche dalla baseball fiction. Vediamole.
Anzitutto, Dominic è mancino. C'è tutta una tradizione di aneddoti sulle stranezze dei mancini, soprattutto se lanciatori, che va inquadrata ovviamente nell'atteggiamento più ampio e molto diffuso nelle culture occidentali di ostilità verso chi usa la mano sinistra ("la mano del diavolo", a significare una persona comunque non facilmente omologabile). In molte delle short stories dei primi decenni della baseball fiction, ad esempio in quelle di Charles Van Loan, è facile imbattersi in pitchers mancini un po' picchiatelli che magari sono anche vincenti sul mound ma che causano problemi nello spogliatoio. E una delle frasi ricorrenti di Jack Keefe, il protagonista di You Know Me Al (1914) di Ring Lardner -di cui abbiamo già parlato qualche mese fa-, è proprio: "Mai fidarsi di un mancino!". È a partire da questi materiali orali e scritti, che nel 1953 Mark Harris costruirà la figura bizzarra del pitcher Henry Wiggen, facendone il "prototipo letterario del mancino" in The Southpaw, un importante romanzo sul baseball di cui parleremo prossimamente. Si tratta di precedenti che Fante conosceva sicuramente e che tenne in qualche modo presenti nella sua caratterizzazione di Dominic Molise.
Anche l'espediente di presentare Il Braccio come un'entità separata dal lanciatore, dotata quasi di vita propria, non è affatto nuovo. Lo stesso Jack Keefe verso la fine del libro di Lardner è solito rivolgersi al proprio braccio parlandone addirittura al femminile ("The Arm" sarebbe dunque una She, mentre per Dominic Molise è comunque un ente neutro, un It). Nel riprendere questa tradizione Fante va però oltre e giunge a usare la prosopopea, cioè a far parlare Il Braccio con il suo possessore.
Ma al di là di questi evidenti elementi folklorici, c'è un tema ben più importante che è proprio del discorso mitologico sul baseball che Fante mette a frutto nella costruzione di Un anno terribile: è quello del rapporto col padre attraverso il gioco, un rapporto che in questo caso è costruito sull'assenza, sul contrasto e non sull'armonia fra le generazioni. È ciò di cui parleremo nel nostro terzo e ultimo appuntamento con la prosa di John Fante.
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