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R.A. Dickey, la storia di un pitcher "normale"

Ammiriamo gli atleti perché fanno quello che noi gente "normale" non siamo in grado fare. Che sia correre i 100 metri in meno di 10 secondi, saltare oltre i 2 metri o fare gol impossibili che fanno gioire nazioni intere. Uomini e campioni, onorati da tutti per le doti straordinarie. Poi, ogni tanto ne arriva uno, che a prima vista sembrerebbe essere uguale a noi, ma che si rivela in grado di fare cose ancor più straordinarie dei suoi colleghi. Quando questo accade, la normale ammirazione trascende e diventa adorazione. Ecco, Robert Allen Dickey è proprio uno di questi.

Il primo giorno che arrivò allo spring training dei New York Mets nel 2010, i custodi del campo lo scambiarono per un tifoso a caccia di autografi e gli proibirono l'ingresso. Forse perché era venuto in bicicletta, mentre i suoi colleghi erano arrivati a bordo di ben più consone Lamborghini e Ferrari. Ci volle l'intervento del GM Omar Minaya in persona per convincerli a farlo entrare.

Insomma, Dickey sembra un uomo comune, e non certo uno in grado di mandare strike-out i migliori battitori della MLB. Sarà per il suo aspetto "working class" o per il suo accento del Tennessee, sarà perché parla con il lessico di un professore universitario (è laureato in letteratura inglese) o perché è un grande appassionato di Star Wars e dei libri di Tolkien. Fatto sta che quest'uomo, mite e sorridente, è quanto di più simile a un collega di ufficio si possa sperare di trovare sul monte di lancio di una squadra di Major League. Eppure, nonostante le apparenze, nella vita di Robert Allen Dickey di normale c'è e c'è stato ben poco.

Ma cominciamo dall'inizio. O meglio da un inizio. Dal giorno in cui i Texas Rangers selezionano Dickey come diciottesima scelta nel draft del 1996. La squadra gli offre ben 810.000 dollari di bonus, dopo che il ragazzo è stato nominato "All American" per l'Università del Tennessee. La strada davanti al pitcher sembra spianata, ma non è così. Una visita medica di routine rivela che Dickey è nato senza un legamento collaterale nel gomito del braccio con cui lancia. Si tratta di una circostanza più unica che rara e i medici, nonostante la faccenda sembri non creare alcun problema all'atleta, sconsigliano ai Rangers di metterlo sotto contratto. Il ragazzo, alla fine, è selezionato comunque, ma l'offerta scende a 75.000 dollari. E così comincia la sua carriera nelle leghe minori. Quella strada che in principio pareva essere a scorrimento veloce e a cinque corsie si rivela essere una provinciale sterrata e piena di curve. Dickey langue nelle leghe minori, occasionalmente affacciandosi alle Majors. I suoi numeri non sono affatto esaltanti, ma gli permettono di tenersi a galla: insomma sembra destinato ad una rispettabile, quanto oscura carriera da minor leaguer.

Poi nel 2006, durante un allenamento dello spring training il pitching coach dei Rangers, il celebre Orel Hershisher, vincitore del CY Young Award coi Dodgers nel 1988, gli apre gli occhi: "Non ce la farai mai a sfondare come un pitcher convenzionale, forse ti conviene lavorare un po' su quell'altro lancio che fai ogni tanto in allenamento". Quell'altro lancio è il più strano che ci sia nella storia del baseball: il knuckleball. I più sono convinti che si faccia con le nocche, ma in realtà si effettua tenendo la palla con la punta delle dita, quasi con le unghie. L'obiettivo di questa presa originale è quello di non imprimere alla pallina alcuna rotazione così da renderla "pesante" quando e se il battitore riesce a colpirla. È un lancio lento, che non necessità di alcuna dote atletica, e che in teoria potrebbero fare tutti. Il problema è che il knuckleball è molto difficile da gestire, tanto che spesso né il battitore, né il catcher, né il pitcher sanno dove andrà a finire. Si potrebbe dire con una battuta che controllare questo tipo di lancio più che impossibile è inutile. E, infatti, quasi nessun lanciatore decide di usarlo. Ma Dickey decide di seguire il consiglio del suo pitching coach e passa i successivi tre anni a farsi battere duro da ogni avversario che incontra. I risultati della sua carriera di knuckleballer non sono incoraggianti, ma lui insiste anche quando è rilasciato nel giro di tre anni dai Rangers, dai Mariners e dai Twins.

E arriviamo alla primavera del 2010, quella dell'arrivo al campo in bicicletta, per intenderci. Dickey, nell'indifferenza generale, ha firmato un contratto con i New York Mets e ora sta cercando di ritagliarsi un posticino nel roster. Non gli riesce. È il primo a essere tagliato e gli tocca andare a giocare nella squadra di triplo A di Buffalo. Ma nei pressi delle cascate del Niagara scatta qualcosa e Dickey mette su numeri eccellenti. Tanto che a metà maggio i Mets lo chiamano per entrare nella rotazione e, nello stupore generale, il nuovo arrivato lancia come un campione. Finisce l'anno con una media PGL di 2.84 che lo piazza nella top ten della National League. Quella che potrebbe essere una fine degna per questa storia, è in realtà solo l'inizio perché in pochi sono pronti a scommettere che Dickey si ripeterà l'anno successivo: troppo vecchio – ha 36 anni – e troppo imprevedibile il knuckleball, e poi quel braccio, chissà quanto reggerà ancora… Tra quelli disposti a rischiare ci sono i New York Mets che gli offrono un triennale da circa 12 milioni di dollari. Per Dickey è il contratto della vita e firma subito. Si rivelerà un affare sopratutto per la squadra di New York giacché nel 2011 Dickey si confermerà un buon lanciatore.

L'investimento dei Mets sembra, però, non essere più una buona idea quando nel novembre dello stesso anno R.A. Dickey dichiara di voler scalare il monte Kilimangiaro per raccogliere fondi a sostegno di una causa cui tiene molto: aiutare i bambini nati nel quartiere a luci rosse di Bombay. Sono in molti attorno a lui a dirgli di non farlo, dopotutto la sua carriera è appena cominciata, perché rischiare tutto? Lui tira dritto e arriva fino in fondo, o meglio fino in cima. Il perché di tanta determinazione è svelato qualche mese più tardi, quando Dickey pubblica la sua biografia Wherever I may wind up: my quest for authenticity and the perfect knuckleball, scritta in larghissima parte di suo pugno. Nel libro il lanciatore si racconta schiettamente e confessa, tra le altre cose, di aver subito nella propria infanzia diversi episodi di molestie sessuali per opera di una ragazza e di un ragazzo più grandi di lui.

Per Dickey è una liberazione, raggiunta a fatica con l'aiuto di un terapeuta, di una rinnovata fede in Dio e col supporto di sua moglie e dei suoi tre figli. Una catarsi in piena regola, di quelle che persino Hollywood fatica ad immaginate, che sembra dare nuova forza al pitcher dei Mets. Dalla pubblicazione del libro in poi Dickey, infatti, non ne sbaglia più una.

La stagione 2012 è un susseguirsi di trionfi che vanno dai due one-hitter, alla convocazione all'All- Star Game, al record di inning senza subire punti e si conclude con dei numeri da capogiro (20 vittorie, 230 strike-out e una media PGL di 2.73) – e la vittoria, poche settimane fa, del CY Young Award, il premio più prestigioso per un lanciatore. Nessun knuckleballer è mai arrivato così in alto, nemmeno tra quelli che hanno scalato il Kilimangiaro. Sarà questo il lieto fine della storia di Robert Allen Dickey? Chi può dirlo. Di questo passo un premio Nobel per la letteratura, non ci stupirebbe poi tanto. Quel che è certo è che oggi Dickey è il miglior knuckleballer della MLB, e questo non tanto perché è l'unico, quanto perché mentre fa sembrare i battitori più pagati del mondo dei dilettanti lanciando la sua palla pazza e danzante, noi gente comune non possiamo che guardarlo in adorazione e pensare inconfessabilmente tra noi: "Cavolo, quel lancio potrei farlo anch'io!" È un'illusione naturalmente, ma che rende tutti gli ostacoli che ci capitano nelle nostre vite "normali" un po' meno difficili da affrontare. E insomma, scusate se è poco.

Devor de Pascalis

Devor de Pascalis è scrittore e sceneggiatore di cinema e TV. Nato a Roma nel 1976, si innamora perdutamente del baseball nell'inverno nel 1986 quando la mamma americana lo porta a trovare lo zio di Brooklyn, grande tifoso dei Dodgers (quelli di Pee Wee Reese e Roy Campanella, per intenderci). Tornato in Italia impara le regole del gioco grazie al Nintendo e a Bases Loaded 2, segue la MLB trafugando copie di USA Today dall'ambasciata americana, si invaghisce della protagonista dell'anime "Pat la ragazza del Baseball" e si mette a giocare nella Roma come "centro panchina". Sviluppa negli anni una passione malsana per le statistiche, che ritiene il personale rimedio al logorio della vita moderna, e tifa da sempre New York Mets perché non gli è mai piaciuto vincere facile. Ancora oggi ricopre con un certo successo il ruolo di "centro panchina" nella squadra amatoriale di softball del Green Hill.

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