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Se il "box-score" entra nel romanzo

Uno degli aspetti più affascinanti di The Southpaw, ciò che lo rende davvero un romanzo capitale nella storia della baseball fiction, è non solo la sua straordinaria capacità di creare un personaggio e di raccontarne le vicende, ma anche la sua continua riflessione sull'atto stesso della scrittura, sul rapporto fra narrazione ed evento.

Da un lato abbiamo un protagonista, il pitcher mancino Henry Wiggen, la cui evoluzione individuale si inserisce all'interno di un quadro ben bilanciato di personaggi, a cominciare dai compagni di gioco che lo accompagnano nella scalata dalle Minors alle Majors. Henry vive la gioia delle partite, il cameratismo dello spogliatoio, l'allegria per chi riesce a superare le spietate selezioni del farm system e la tristezza per chi non ce la fa, come quel giovane catcher scartato che finisce col suicidarsi "saltando giù da un ponte a Albuquerque, New Mexico, una città di Singolo A  della West Texas New Mexico League". E poi c'è la riverenza per le vecchie glorie, la rivalità fra lanciatori, il rapporto amore-odio con l'allenatore, tutta una rete di rapporti umani che avvolge questi giovani uomini che cercano nel gioco la propria realizzazione personale prima che professionale, rapporti che tracciano vere e proprie linee di tensione sul diamante. Ma c'è anche l'irruzione del mondo esterno nella vita dei giocatori, l'aspirazione all'ascesa sociale di chi proviene da un ambiente segnato dalla povertà, la scoperta dell'etnicità nel sottile antisemitismo che assedia alcuni giocatori ebrei (e, come abbiamo visto, ebreo era anche lo stesso Mark Harris), l'ostracismo dell'allenatore verso l'unico giocatore ispano della squadra che non sa parlare inglese, la critica verso le istituzioni che fa sì che Henry rifiuti di partecipare ad una tournée della squadra nella Corea devastata dalla guerra, o che decida di non alzarsi in piedi durante l'esecuzione dell'inno nazionale.

Dall'altro lato, c'è appunto l'aspetto metaletterario della narrazione, che l'autore affronta e risolve con brillantezza. Attraverso le parole di Henry Wiggen (un lettore un po' naive della grande letteratura americana, che cita Melville o Mark Twain, ma che pensa che Giants In The Earth di Rölvaag sia un libro sui New York Giants), Mark Harris comincia col criticare tutta la tradizione precedente della baseball fiction:

Quell'inverno presi in prestito parecchi libri mentre era ancora valida la mia tessera della biblioteca. […]  C'erano anche dei libri di storie di baseball, come quelli di Sherman e Heyliger e Tunis e Lardner, anche se Lardner non mi sembrava un granché: in metà delle sue storie c'erano delle donne, e l'altra metà parlava meno di baseball che di quello che succedeva negli alberghi e sui treni. Non sembrava che gli importasse molto lo svolgimento delle partite.

Insomma, per Harris il grande Ring Lardner, l'autore del notissimo You Know Me Al, raccontava più l'ambiente che il gioco, ed era in realtà più interessato alle vicende private dei personaggi che al baseball in sé. Ovviamente, si tratta di un giudizio critico discutibile, ma senza dubbio la questione rappresentava (e rappresenta ancora oggi) una sfida per ogni scrittore: cosa vuol dire raccontare il baseball, scrivere una storia incentrata sulle vicende di un giocatore, di una squadra, di un campionato? Come narrare in maniera avvincente uno sport che si basa sulla ripetizione ciclica delle stesse azioni, sulla reiterazione dei gesti e delle partite, che può essere rappresentato più facilmente dai numeri e dai segni sullo score che con le parole?

Harris non arretra di fronte alle difficoltà e fa proprie tutte le tecniche di rappresentazione del gioco provenienti dal giornalismo sportivo. Le partite giocate dalla squadra di Wiggen, i Mammoths, sono narrate a tratti inning per inning, con sagacia e buon ritmo, e alla fine di molte di esse ci viene presentato persino il box score delle due formazioni, e anche la classifica in un determinato punto del campionato. Lo stesso romanzo si apre con una descrizione schematica del roster della squadra per il 1952, in cui di ogni giocatore si forniscono la data e il luogo di nascita, il peso e l'altezza, la mano di lancio e di battuta, il luogo di residenza. Ma per non far stancare il lettore, l'autore fa intervenire il padre Pop, il vicino Aaron e la fidanzata Holly -che sono, come abbiano visto, il terzetto di personaggi più vicini ad Henry- per dare a Henry consigli sulla scrittura e contrarrestare la sua tendenza all'esaustività:

Ho notato che sia il capitolo scorso che quello precedente sono finiti con delle statistiche. Ne avevo il libro pieno, con le medie battute e le medie difesa e la classifica delle squadre in ogni giornata. Ma Holly ha detto che quando è troppo è troppo. Red Traphagen [il catcher anziano della squadra] è venuto a trovarci per un paio di giorni la settimana scorsa e ha detto lo stesso. Ha letto ciò che avevo scritto, e ha detto che va bene, ma che ci sono troppe statistiche.  E Aaron gli ricorda: Non sono le statistiche a raccontare la storia, ma ciò che accade nel tuo cuore.

Amici e parenti vigilano sulla stesura del romanzo. Invece del capitolo 12, troviamo un capitolo denominato 11-A in cui Henry legge ai suoi a voce alta ciò che ha scritto fino a quel momento. Henry interrompe spesso la lettura per fare degli incisi in cui approfondisce e chiarisce la narrazione:

"Eccellente, eccellente", disse Holly scattando in piedi, adesso ci hai raccontato più cose su Mr. Mulrooney [il proprietario della squadra] di quante ne avessi dette nelle nove pagine che gli avevi dedicato nel capitolo dodici". [Poi interviene Pop:] "È come in una partita di baseball. Se tu dovessi lanciare una partita e vincerla per 1-0, me la racconteresti inning per inning, con ogni foul ball e ogni dettaglio? No, la cosa principale sarebbe quel punto segnato e le azioni a cui hai preso parte". E, consiglio dopo consiglio, Henry viene convinto a sfrondare il manoscritto del lunghissimo capitolo dodici, che alla fine è ridotto a un solo periodo: "Be', il risultato fu che arrivai ai Mammoth nel settembre del mio secondo anno, e lanciai solo un inning come rilievo contro Boston".

The Southpaw è tutto questo: un romanzo composto sulla soglia della postmodernità con i materiali decisamente "low-brow" del folklore del baseball, con un protagonista di bassa estrazione sociale che attraverso il gioco lancia uno sguardo orgoglioso e critico sulla società americana. Al tempo stesso si tratta di un esercizio sofisticato di scrittura non  privo di una profonda dimensione metaletteraria, un lavoro che avrà un seguito in Bang The Drum Slowly (1956), il secondo romanzo della tetralogia dedicata al mancino Henry Wiggen, di cui ci occuperemo nel nostro prossimo appuntamento.

Luigi Giuliani

Un vita spezzata in tre: venticinque anni a Roma (lanciatore e ricevitore in serie C), venticinque anni in Spagna (con il Sant Andreu, il Barcelona e il Sabadell, squadra di cui è stato anche tecnico, e come docente di Letteratura Comparata presso le università Autónoma de Barcelona e Extremadura), per approdare poi in terra umbra (come professore associato di Letteratura Spagnola presso l'Università di Perugia). Due grandi passioni: il baseball e la letteratura (se avesse scelto il calcio e l'odontoiatria adesso sarebbe ricco, ma è molto meglio così...).

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