All'indomani dell'attacco a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941 gli Stati Uniti si ritrovarono proiettati nella Seconda Guerra Mondiale, un conflitto in cui erano rimasti neutrali per più di due anni. La discesa in campo contro le potenze dell'Asse non solo comportò per il Paese un eccezionale sforzo militare ed economico, ma ebbe anche un costo sociale che mise a rischio per la prima volta l'immagine positiva che la società americana aveva di sé in quanto nazione di immigranti. Il governo, timoroso di un possibile sbarco giapponese sulle coste del Pacifico e al tempo stesso preoccupato per la possibile attività di spie nemiche sul suolo americano, vide nella presenza di immigrati giapponesi, italiani e tedeschi un pericolo per la sicurezza nazionale, soprattutto nel caso di coloro che non avessero preso fino ad allora la nazionalità statunitense. Così, mentre alcuni agenti tedeschi furono effettivamente catturati e giustiziati per il sabotaggio e l'affondamento nel febbraio del 1942 di una nave militare nel porto di New York, migliaia di italiani e giapponesi che non avevano ancora preso la nazionalità americana furono dichiarati "enemy aliens" e sottoposti a misure restrittive della libertà. Fra queste c'era il divieto di possedere radio ricetrasmittenti e l'allontanamento di almeno 200 miglia dalle installazioni militari (caserme, porti e aeroporti) e da possibili obiettivi sensibili. Intere famiglie furono deportate e internate in campi di concentramento dell'interno del Paese, spesso in zone desertiche, dove rimasero fino alla fine della guerra.
In uno di quei campi di concentramento destinati ai cittadini di origine giapponese è ambientata la storia raccontata da Ken Mochizuki e splendidamente illustrata in Baseball Saved Us (Lee & Low Books, New York 1993), un classico della narrativa per ragazzi, più volte premiato dalla critica. È una vicenda narrata in prima persona da un anonimo ragazzino, una storia che raccoglie i ricordi famigliari di Mochizuki, uno scrittore di origini giapponesi i cui genitori furono internati assieme ad altre 9000 persone nelle baracche del Minidoka Camp, nell'Idaho.
Circondati da palizzate e filo spinato, guardati a vista da soldati di guardia su altane e torrette, uomini, donne e bambini cercano nelle baracche di recuperare una parvenza di normalità nella loro vita quotidiana. Ma non è facile. Passano i mesi e le regole famigliari sembrano saltare, i figli cominciano a mancare di rispetto ai padri, l'angoscia scende su questa gente colpevole di nulla che attende rinchiusa la fine di una guerra lontana che li lacera come persone e come cittadini.
Ma un giorno il padre del protagonista ha un'intuizione: "Fu allora quando mio padre comprese l'importanza che avrebbe avuto per noi il baseball. Rimediammo delle pale e cominciammo a ripulire dalle erbacce una grande spianata che era vicina alle baracche. Il soldato sull'altana ci vigilava tutto il tempo. Molto presto altri padri e figli si unirono a noi per aiutarci." Il lavoro coinvolge subito tutti i prigionieri. Gli uomini scavano dei fossi per sviare l'acqua ed irrigare il campo. Rimediano delle tavole di legno per costruire delle gradinate. Con la stoffa dei materassi le donne tagliano e cuciono delle divise da gioco per i bambini "che sembrano quasi vere". Chi è rimasto in contatto con i vicini di casa, riesce a farsi mandare guanti, mazze e palline.
Come per miracolo, in mezzo al deserto e dietro il filo spinato ecco sorgere un diamante su cui tutti i ragazzini del campo giocano partite su partite, interi campionati a cui assistono gli adulti assiepati a bordo campo. Anche le sentinelle osservano il gioco dall'alto. Per più di tre lunghi anni, il baseball è l'unico svago, l'unica attività che riempie le giornate di quelle migliaia di giapponesi. Il ragazzino protagonista non è un granché come giocatore. I compagni di squadra lo schierano in seconda base "perché quello è il ruolo più facile". Spesso finisce al piatto. Ma non smette di crescere, di migliorare.
Ed eccoci all'ultima partita del campionato. La squadra del protagonista sta perdendo 3-2 al nono inning. C'è un corridore in seconda e due out. Tocca al ragazzino battere. Le grida del pubblico -grandi e piccini- lo sovrastano. Si sente una vittima sacrificale, teme l'ennesimo strikeout. Alza lo sguardo e vede gli occhiali da sole del soldato di guardia brillare nella luce accecante del deserto. Capisce che non può finire così. Stringe i denti. Tutto intorno si fa silenzio. Parte il lancio, c'è lo swing e la palla vola lontano, oltre la recinzione e il filo spinato. Una pallina che fugge dal campo, una pallina che quei ragazzini rinchiusi non possono uscire a riprendere. Il protagonista corre sulle basi, arriva a casa e viene portato in trionfo dai compagni. Sull'altana la sentinella sorride e fa il segno di vittoria con le dita.
Giunge il 1945, i prigionieri vengono liberati e tornano a casa. Ora il protagonista gioca nel campionato della scuola. La guerra è finita ma ha lasciato ferite profonde. Durante le partite i ragazzi lo insultano, lo chiamano con disprezzo "Giapponese". Ma il nostro eroe è cresciuto e sa come comportarsi . Concentrazione, uno swing, una pallina che si perde nell'azzurro del cielo e scompare oltre l'esterno. Un fuoricampo per l'uguaglianza e la dignità.
Baseball Saved Us riunisce in sé, dunque, vari motivi narrativi delle tipici della narrazione del baseball. C'è la costruzione del campo, c'è la partita risolutiva in cui il protagonista riscatta se stesso e la sua squadra/comunità. C'è il tema del rapporto padre/figlio, il passare delle generazioni, la dimensione domestica del gioco. Ma c'è soprattutto l'idea del baseball come isola, come spazio circoscritto (questa volta doppiamente circoscritto: i giapponesi isolati in prigionia nel deserto costruiscono a loro volta un diamante nella prigione) immune dai travagli del mondo esterno. In quel luogo recintato, forzosamente omogeneo dal punto di vista etnico, il baseball regola la vita delle persone, dà loro un appiglio per sollevarsi dall'abbrutimento individuale e collettivo della prigionia. Quegli uomini e quelle donne intuiscono una terribile verità: il loro confinamento, apparentemente imposto dagli eventi bellici, nasconde il razzismo di una società che al discriminare i diversi tradisce le proprie promesse di uguaglianza e libertà, tradisce stessa. È il batti e corri – come in tante altre narrazioni di baseball fiction- il veicolo con cui a guerra finita sarà possibile per quei genitori e per i loro figli l'integrazione nel mainstream, un'integrazione che non sarà più lo sciogliersi nel melting pot culturale americano, ma un rapporto fra pari costruito sul ricordo delle proprie radici e del proprio dolore.
Una storia narrata con delicatezza in cui narrazione e immagine si appoggiano vicendevolmente ed efficacemente grazie alle matite di Dom Lee, un artista sudcoreano che ha ripetutamente collaborato con Mochizuki in altri lavori in cui viene ripreso il tema dell'integrazione dei Asian-Americans nella società degli USA (notevole ad esempio il loro Heroes, 1997). Un libretto agile disponibile anche in spagnolo (El béisbol nos salvó, 1995) e facilmente reperibile di seconda mano per pochi euro nei siti delle librerie online.
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