La notizia rischiava quasi di passare inosservata se il bravo Simone Drudi, addetto stampa del Rimini baseball, non l'avesse scovata sul sito della Liga professionale Venezuelana e postata sul gruppo Facebook dei sostenitori nero-arancio: Orlando "Pepita" Munoz ha raggiunto un accordo con l'organizzazione professionistica dei Philadelphia Phillies. Quello con l'organizzazione biancorossa sarà un impegno che lo assorbirà completamente, pertanto, dopo ben ventisette stagioni invernali, non sarà più in grado di onorare l'impegno con le Aguilas de Zuilia, il suo storico club venezuelano. Di conseguenza, è ovvio, "Pepi" non tornerà nemmeno in Italia il prossimo anno.
Si chiude così la straordinaria carriera italiana di uno dei più forti stranieri mai visti nel nostro paese, poi diventato un grande tecnico, capace di riportare dopo nove anni lo scudetto a Rimini.
La prossima sarebbe stata la ventesima stagione in quella che lui ormai amava definire la sua seconda patria. Diciannove campionati in Italia, quattordici da giocatore, uno da hitting-coach e quattro da manager. Dieci stagioni a Modena, otto a Parma, due a Rimini. Due scudetti vinti, uno da giocatore a Parma ("Avrei tanto voluto vincere a Modena, ma sono riuscito a conquistare uno scudetto storico, il decimo, in una città che mi ha adottato, proprio alla fine della mia carriera: ho realizzato il mio sogno", disse in lacrime la notte dell'11 settembre 2010), un altro da tecnico a Rimini. In entrambe le occasioni la sua squadra partiva sfavorita eppure vinse. In entrambi i trionfi di Parma e Rimini era evidentissima la sua mano. Grande uomo, soprattutto, compagno e avversario leale, amico vero. Grande carisma in campo e negli spogliatoi. Impressionanti le sue statistiche da giocatore: in diciannove stagioni solo una volta è sceso sotto la media .300: è successo nel 2009 a Parma, quando battè 287, 997 valide, solo tre da quella quota 1000 che avrebbe tanto voluto raggiungere, 28 fuoricampo, 465 RBI e 140 basi rubate, lui, che non era certo un fulmine, ma sapeva prendere il tempo come nessun altro. Solo 80 errori in difesa nei ruoli di seconda base, interbase e terza base e una visione del gioco incredibile. Tutte doti che si è portato dietro quando ha iniziato, tra molte critiche, l'avventura da tecnico. Eppure il primo anno sfiorò una qualificazione ai play-off che avrebbe meritato, dopo una rimonta caratterizzata da 11 vittorie su 12 partite. L'anno successivo, quello dei due gironi da quattro con il round robin della seconda fase andata e ritorno, passò alla seconda fase, dove perse sei partite di un solo punto. Ma era un Parma in grave crisi societaria. Così nel 2015, insieme a Desimoni raggiunse Bertagnon, Corradini, Zileri e Macaluso a Rimini, mentre Sambucci andava a Bologna. Contento di poter finalmente guidare una "Ferrari", la portò al traguardo dello scudetto con grande intelligenza, non spremendo i lanciatori, responsabilizzando anche le seconde linee, cose che nella serie finale si rivelarono decisive. Poi questa stagione, tribolatissima, tra infortuni, fughe in Messico, acquazzoni e polemiche: arriva secondo in Europa, prendendosi la soddisfazione di battere Bologna in semifinale e sfiora il bis tricolore. Eppure c'era chi non era soddisfatto. "Un'ora prima della partita spengo il telefono e accendo il cervello" mi ha confidato una sera a Parma, dopo una partita. Da uomo coerente qual'era tirava dritto per la sua strada e non se ne curava. Anche se chi lo conosce sa che, probabilmente, dentro un po' soffriva. Lascia da vincente, da uomo vincente. Rispettato e stimato da tutti. Speriamo sia un arrivederci, ma per ora, da oggi, il baseball italiano è ancora più povero. In bocca al lupo, Pepi!
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