Noi e il Classic: la sveglia puntata alle tre, la notte che avanza, il bagliore dello schermo della televisione o del computer, la stanchezza, ma anche l'incredulità, l'emozione per dei ragazzi che sono laggiù a battersi su un diamante contro le migliori squadre del mondo. Certo, si respirano sentimenti e opinioni contrastanti: la sufficienza ("Il Classic non è un Mondiale, è un meccanismo per fare soldi"), il nazionalismo ("Ma ci sono pochi italiani, a parte Maestri, Liddi, Colabello, Poma, Vaglio, Chiarini, Crepaldi…"), l'ironia ("Morris, DeMark… non sembrano esattamente tipici cognomi abruzzesi…), contrastano con il grido di chi all'ultima valida di Andreoli alle sette di mattina urla la propria gioia su Facebook.
Proviamo a prenderla da un altro verso e ad allargare il discorso: questo Classic è una risorsa. E non mi riferisco ai pur importanti benefici in termini di esperienza e di carriera che ne trarranno i giocatori che militano in IBL e quelli che giocano oltreoceano, né alle somme importanti che finiranno alla Federazione in caso di passaggio del turno della Nazionale. Vorrei invece provare qui a impostare il discorso dal basso, partendo dalle nostre realtà, dai centri e dalle periferie della geografia del baseball italiano. E per farlo vorrei raccontarvi la mia Italia-Venezuela, la partita che ho vissuto sabato sera davanti a uno schermo insieme ai ragazzi dell'under 18 e le loro famiglie, ai dirigenti e ai tecnici della Libertas Perugia, ai giocatori della Promos Perugia che quest'anno non ce l'hanno fatta a iscriversi alla serie C.
Un minimo d'organizzazione, un locale disponibile, uno schermo gigante, una cena conviviale, pasta al forno, salsicce e gli occhi increduli di adolescenti che vedono per la prima volta all'opera giocatori di cui ignoravano persino l'esistenza. Perché non sanno chi sia Liddi. Né Cervelli. Né Mazzieri. Ragazzi che da anni con sacrificio ed entusiasmo si allenano e giocano nei campionati regionali ma che a scuola hanno compagni che non hanno mai sentito parlare di baseball mentre sanno tutto della Juve, del Milan o del Perugia Calcio. E ragazzi che vengono da altri Paesi per i quali magari il baseball è un retaggio famigliare che rischia di sbiadire nell'apatia e l'indifferenza dell'Italia di questi anni.
D'accordo, l'Umbria è una realtà marginale nell'orizzonte del baseball italiano, una regione con una storia recente fatta di defezioni (giocatori, dirigenti, intere società scomparse) e problemi (ormai è rimasto un unico diamante nella regione, quello splendido ma in pericolo di Pian di Massiano). Una contrazione in termini di attività e tesserati contro cui lottiamo quotidianamente nelle scuole, negli uffici, sul campo, e che certamente si registra anche in altri luoghi in Italia. Ma qui a Perugia vogliamo provare a usare il Classic come risorsa. Creare momenti di visione collettiva, di festa, di analisi. Vogliamo vederlo insieme, parlarne, scriverne. E provare a fare lo stesso con la IBL, quando inizierà il campionato, con le partite del Padule nella massima serie a solo un'ora e venti di macchina da qui.
Perché -ed è questa la riflessione che oggi, sulla scia delle gesta della nostra Nazionale, voglio proporre- in quest'Italia dove la crisi degli sport minori si inserisce in un quadro di difficoltà economiche e di degrado sociale, i nostri sforzi dal basso (dei tecnici, dei dirigenti, di chi ama questo gioco) vengono in gran parte vanificati anche dalla marginalità della comunicazione intorno al baseball.
Si dice che sia difficile "vendere" baseball in Italia. Gli sforzi anche importanti della Federazione, di chi lavora nei periodici nazionali e locali o in testate giornalistiche online come la nostra -a mio avviso- devono fare i conti non tanto con un "prodotto" lento, fatto di regole non immediatamente comprensibili, ma con un'egemonia (e qui i più avveduti sanno da dove proviene il termine), quella del calcio, che si sposa nei fatti (ne è veicolo e allo stesso tempo contenuto) con interessi economici legati a una visione del mondo culturalmente, socialmente e ideologicamente omologante. Il baseball può presentarsi allora come lo sport della diversità, che rompe gli schemi del pensiero unico imperante, il gioco dell'alterità. È un discorso che deve nutrire le realtà di chi è dentro il baseball e che allo stesso tempo deve circolare là fuori fra chi di baseball non sa nulla. E se la comunicazione -che deve essere il collante che tiene insieme il tutto- fa fatica a diffondere il baseball dall'alto (o nella dimensione orizzontale della Rete), è necessario che dai territori ci si "appropri" degli eventi che possono darci visibilità, in linea con una visione -che è anche politica- dal basso del nostro sport. Dieci, cento, mille schermi: cominciamo a "usare" questo Classic e questa IBL (sì, sì, lo so, con tutte le loro problematiche, con tutti i loro difetti), facciamone uno strumento di crescita, un ingrediente per creare quell'humus indispensabile a rinsaldare il baseball lì dove è ancora fiorente, a farlo tornare a vivere nelle grandi città dove è ormai una realtà testimoniale e a portarlo nelle province dove non è mai arrivato.
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