E’ torinese doc, ha 46 anni ed è laureato in Lingue e Letterature Straniere Moderne. Ma più della tesi sul rapporto tra mitologia classica e letteratura medievale, è stato il legame – intenso e travagliato ma sempre appassionato – tra il capoluogo piemontese e il baseball a conquistarlo. Tanto da scriverci un libro, la sua opera prima.
D’altronde, il baseball, è uno sport che Alessandro Ballor conosce molto bene, visto che dopo gli inizi nelle giovanili dell’allora Juve ‘48 è poi arrivato ai Grizzlies. Un ex-lanciatore che ha giocato in tutte le categorie seniores dalla C2 sino alla serie A1, calcando i diamanti in giro per l’Italia negli anni ’90 e 2000. A un certo punto, abbandonati slider, palle veloci e curve, senza farsi più annotare K sullo scorer, Ballor decide di cimentarsi in prima persona ideando qualcosa di originale sulla sua città e il suo grande amore a 108 cuciture.
La “Storia del baseball a Torino” (160 pagine, pubblicato da Yume Edizioni) è il racconto di 70 anni di vita del batti e corri sotto la Mole con i personaggi e le squadre, i sogni e le aspirazioni, le imprese ma anche i momenti bui. Un libro assolutamente da leggere perché riguarda una delle realtà del baseball italiano, insieme a Milano, Parma, Bologna, Nettuno, Rimini, Grosseto ed altre, che al baseball ha sempre dato tantissimo. Terra di campioni e di ispiratori che deve tornare ad occupare un ruolo primario nel baseball che conta. E la “Storia del baseball a Torino”, ricordando il passato, può aiutare a gettare le basi e a ricreare entusiasmo su qualcosa di più ambizioso per il futuro.
Chi è Alessandro Ballor e dove nasce questa passione irrefrenabile per il baseball?
Come per tante persone della mia generazione, nate negli anni ’70 ma cresciute alla corte delle TV private degli anni ’80, la passione per questo sport nasce proprio dai cartoni animati giapponesi. E da qualche lezione di baseball alle scuole medie. Da lì, verso i 14 anni, in avanti l’amore non si è mai interrotto, prima come giocatore e poi come appassionato
Ma perché raccontare la storia del baseball a Torino?
Perché non provare a mettere insieme tutti i pezzi di un puzzle molto bello e alle volte un po’ confuso? Dove ognuno ha un suo pezzo di storia, che può integrare o continuare il pezzo di qualcun altro? Qualcuno disse: ogni volta che dimentico qualcosa, mi sento un po’ più povero. La memoria è un terreno da coltivare e il modo migliore per farlo è raccontare storie. Come questa.
Quando è nata l’ispirazione e chi ti ha aiutato nella preparazione della tua opera prima?
Questo è un lavoro che parte da lontano, alla fine del 2018. Nasce da un racconto, da una cena e da una suggestione. Il racconto fu una storia autobiografica sul baseball che scrissi molti anni fa e che pubblicai a mie spese in poche copie da regalare ai compagni di viaggio della mia avventura sportiva e non soltanto. La cena fu con mio cugino Nico Ivaldi per condividere il libro e lì nacque la suggestione di provare a concretizzare questa grande passione per il baseball, scrivendone una storia. Sono tante le persone che mi hanno aiutato in questo lavoro: citarle tutte qui sarebbe arduo.
C’è una bella frase dell’Hall of Famer Leo Durocher: che significato ha?
E’ una frase che sentivo spesso nel dug-out pronunciare da un mio compagno di squadra. Per me rappresenta davvero la descrizione di cosa è il baseball.
Dopo aver introdotto il baseball, inizi la lunga storia del Torino dal 1948. Perché Stonehenge e Menhir?
Stonehenge è un omaggio a Mario Bretto, pioniere del baseball torinese e che molto prima di me si cimentò nello scrivere una storia del vecchio Torino Baseball Club, intitolando la sua opera appunto Stonehenge granata. Sono estremamente debitore di questo lavoro, anche se non ebbi mai la fortuna di incontrare e conoscere Bretto. Il termine Menhir è invece una mia suggestione, come contro altare della storia della prima società di baseball torinese, rappresenta invece la Juve ’48, la seconda società formatasi sotto la Mole nel secondo Dopoguerra.
Nella seconda parte illustri gli anni d’Oro del Torino…
La JuveLancia del Geo Bruno con Paschetto e la William Lawson’s sono le stelle di un periodo esaltante ed eccitante per questo sport, testimoniato non soltanto da queste eccellenze ma anche e soprattutto da un dinamismo delle società più piccole che hanno fatto la fortuna di questo sport a cavallo tra gli anni ’60 e ’70.
C’è un quadriennio che definisci “Purgatorio”
Il baseball è uno sport minore e come tutti vive sull’entusiasmo e sulla passione, e anche sui soldi, pochi per altro. Quando questi finiscono, si passa dal Paradiso al Purgatorio. Ma poi si è sempre tornati in alto.
Ma poi ti soffermi anche sulla cavalcata lunga dieci anni, dall’88 al ‘98
Perché sono gli anni che ho vissuto in prima persona, come giocatore. Quelli più emozionati e belli. Anni di formazione non soltanto sportiva ma anche umana.
Il periodo 1999-2014 hai voluto titolarlo “Bing Bang”
Perché dopo il 1998 la storia è cambiata, perché sono cambiati anche i tempi. Morta una società gloriosa ne sono nate altre che hanno continuato a tenere alto il testimone del passato.
Tanta storia ma anche uno sguardo al futuro. Quali nuovi orizzonti intravedi per Torino?
Il momento non è sicuramente facile, per tanto motivi, molti ben noti. Il baseball in sé non sta attraversando un momento esaltante. L’offerta sportiva negli ultimi anni si è decisamente ampliata e attirare nuove leve non è facile. Ma la passione di chi è dentro questo ambiente fa da catalizzatore per tutto. Il futuro è da scrivere. L’Europeo di settembre sarà sicuramente un nuovo rilancio.
Quale messaggio dovrebbe lasciare questa bella storia del baseball sotto la Mole?
Che qualsiasi situazione umana senza memoria è destinata a finire. Dovere di tutti è mantenerla viva.
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