Evocando emozioni straordinarie: il mito di Willie Mays

Uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi, ci ha lasciati all’età di 93 anni. Ricordiamo con la mente e con il cuore la storia di una grande presa al volo e di un autografo mancato

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Willie Mays, la leggenda (1931-2024)
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Il sostantivo italiano “ricordo” e l’inglese “record” hanno la stessa etimologia. Entrambi derivano dal latino “recordari”, verbo che a sua volta vuol dire “portare in cuore”, perché i latini ritenevano che la memoria risiedesse nel cuore.

Ricordare oggi Willie Mays, a poche ore dalla sua scomparsa, vuol dire dunque parlare dei suoi record e allo stesso tempo – e forse in misura maggiore rispetto ad altri campioni che ci hanno lasciato – vuol dire evocare in noi emozioni. Perché nel nostro immaginario il cuore è la sede del sentimento.

Vediamoli allora i suoi record, quelli che i tifosi memorizzano sin dall’adolescenza e ricordano poi per tutta la vita. Willie Mays, uno dei primi grandi giocatori a passare dalle Negro Leagues alle Major sulla scia di quel vero e proprio eroe culturale che fu Jackie Robinson, giocò per 21 anni nei Giants (1951-1972, seguendo la squadra da New York a San Francisco quando la franchigia cambiò città) per terminare la carriera nei Mets. Atleta completissimo, eccelleva in ogni aspetto del gioco.

I numeri sono lì a dimostrarlo: 660 fuoricampo (sesto nella classifica di tutti i tempi, secondo afroamericano dopo il leggendario Hank Aaron), 3.293 valide con una media battuta/vita di 301, 1.909 punti battuti a casa. E ben 339 basi rubate, frutto di una corsa esplosiva che metteva a frutto anche in difesa, comprendo distanze incredibili in campo esterno.

Le cifre le registriamo in testa. Ma le storie le conserviamo nel cuore. La più nota è quella di The Catch, la Presa per antonomasia, quella che Willie effettuò al Polo Grounds di New York (uno stadio che non esiste più) il 29 settembre 1954.

In gara 1 delle World Series i Giants affrontano i Cleveland Indians. Siamo all’ottavo inning, punteggio 2-2, corridori in prima e seconda, zero out. In battuta per Cleveland c’è il mancino Vic Wertz. Ad affrontarlo il manager dei Giants, Leo Durocher, manda sul monte – come da manuale – un rilievo mancino, Don Liddle. un ball, uno strike, un altro ball. Poi al quarto lancio Werts fa partire un fly lunghissimo che si avvia verso la parte centrale dell’outfield.

Sembra un homerun, ma Willie – che sta giocando abbastanza corto – si gira e corre velocissimo (per quanto? Difficile dirlo, ma furono decine di metri…) e acciuffa la palla di spalle in corsa sul warning track, a circa 130 metri dal piatto. E immediatamente rilancia in seconda per tenere fermi i corridori. (È quanto ricordo di un articolo che lessi – avevo 13 anni… – su un’indimenticabile rivista italiana che si chiamava Baseball&Softball; ma voi oggi cercatela su internet, quella presa).

Con giocate del genere, Willie divenne ben presto un idolo delle folle e per tutti, bianchi e neri, un modello di successo, un uomo da ammirare. Cantava Bob Dylan nel 1963 in “I Shall Be Free” rivolgendosi ironicamente ad uno stereotipato giocatore di football americano: “What I what to know, / mister football man is / what do you think about Martin Luther King and Willie Mays?” (“Voglio sapere, caro giocatore, cosa ne pensi di Martin Luther King e di Willie Mays?”).

Cordiale, spigliato in campo e fuori, venne soprannominato “The Say-Hey Kid”, per il modo con cui si rivolgeva a tutti, ai compagni di squadra, ai giornalisti, ai tifosi che volevano incontrarlo. E di uno di questi incontri vale la pena parlare perché in qualche modo è entrato nella storia della letteratura.

In “The Red Notebook” il grande romanziere Paul Auster ricorda quando, all’età di 8 anni, i suoi genitori lo portarono per la prima volta al Polo Grounds a vedere i Giants giocare in notturna contro i Milwaukee Braves. Finita la partita, la famigliola passò vicino agli spogliatoi e lì il piccolo Paul vide a pochi metri di distanza la sagoma del grande Willie che si apprestava a uscire dallo stadio. Si fece coraggio. Emozionatissimo, chiese: “Mister Mays, può farmi un autografo?”. “Certamente, piccolo. Hai una matita?”. Né il bambino, né suo padre, né nessuno degli adulti presenti aveva con sé una matita. “Mi dispiace”, disse Willie, “non ho una matita e non posso farti un autografo”.

E si allontanò nel buio della notte. Il piccolo Paul trattenne a stento le lacrime e giurò a sè stesso che non sarebbe mai più uscito di casa senza una matita. Fu così che decise di diventare uno scrittore. E di scrivere romanzi in cui il baseball affiora con una certa frequenza.

Anni più tardi, una volta pubblicato “The Red Notebook”, l’anziano Willie venne a conoscenza dell’episodio, che ovviamente aveva dimenticato, e fece pervenire allo scrittore una pallina autografata.

Paul Auster è morto il 30 aprile scorso, all’età di 77 anni, 49 giorni prima della dipartita di Willie Mays. Non so cosa ne pensiate, ma a me piace immaginare il loro secondo incontro – lassù, da qualche parte – con Willie, il giocatore di nuovo ventiquattrenne, che dice “Say Hey!” al piccolo Paul, allo scrittore nuovamente bambino che, sorridendo, gli porge finalmente la matita che ha portato con sé per tutta la vita.

 

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Un vita spezzata in tre: venticinque anni a Roma (lanciatore e ricevitore in serie C), venticinque anni in Spagna (con il Sant Andreu, il Barcelona e il Sabadell, squadra di cui è stato anche tecnico, e come docente di Letteratura Comparata presso le università Autónoma de Barcelona e Extremadura), per approdare poi in terra umbra (come professore associato di Letteratura Spagnola presso l'Università di Perugia). Due grandi passioni: il baseball e la letteratura (se avesse scelto il calcio e l'odontoiatria adesso sarebbe ricco, ma è molto meglio così...).

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