John Fante, Dago Red, Marcos y Marcos, Milano, 1999.
Titolo originale: Dago Red, 1940
John Fante (1909-1983) appartiene a quella bella squadra di scrittori americani lanciati dall’autorevole rivista ‘The American Mercury, diretta dal geniale talent scout Henry Menchen, già mentore di autori come Sinclair Lewis e Sherwood Anderson.
Fante si descrive, in una nota per una biografia, in questo modo: ‘sono nato a Denver, Colorado, nel 1911 (togliendosi, chissà perché, due anni), in una fabbrica di maccheroni, che è proprio il posto giusto in cui un uomo della mia prosapia possa prendere la prima sculacciata, dato che i miei erano contadini italiani. Mia madre è nata a Chicago, ciò che fa di me un americano quanto basta. Mio padre fu molto felice della mia nascita. Così felice che si sbronzò e rimase sbronzo per una settimana. E allo stesso modo, negli ultimi ventun’anni, a continuato a celebrare il mio avvento.
Queste poche frasi sintetizzano in modo efficacissimo ‘Dago Red: una serie di emozioni, di episodi, di ricordi di un ragazzo italo-americano di seconda generazione che li trasferisce sulla carta, espressi in prima persona nello slang che ci si può aspettare da uno come lui.
Non è mai esplicitamente Fante a parlare, ma non ci vuole molta immaginazione a collocare ‘Dago Red nella sfera autobiografica, con alcuni temi, evidentemente particolarmente sentiti dall’autore, che ritornano costantemente: su tutti la diversità, fortemente avvertita rispetto al resto della società americana fra le due guerre mondiali, il cui famoso ‘melting pot è qui individuabile per lo scontro e non certo per l’armonia delle differenze.
Tutto concorre a identificare e a separare la comunità italo-americana (i Dagos, i Wop): la povertà, sentita come una colpa grave, la religione cattolica, vissuta solo attraverso la forma dei riti, le usanze e le tradizioni trapiantate dall’Italia, le abitudini alimentari stesse.
Il padre muratore dalla saltuaria occupazione, duro e manesco, la madre sottomessa, che ha lasciato grazia e bellezza nelle foto gelosamente custodite nel fondo di un baule e vive la sua non-esistenza fra i fornelli e i conti dei bottegai che si allungano, le suore della scuola, che tentano di educare un gruppo di adolescenti già ben orientati alla suddivisione del mondo fra ‘chi ha e ‘chi non ha sono tutti elementi perfettamente caratterizzati e caratterizzanti, che si trasformano a poco a poco nei mattoni del muro di separazione dai Wasp.
E al di qua al muro, rivelata come la più naturale delle realtà al lettore-complice, nasce un’etica nuova, scaturita dall’autodifesa, dalla necessità di reagire di chi è schiacciato fra due mondi: quello importato e mai abbandonato dai genitori e quello nuovo, che si mostra in tutte le sue potenziali (irraggiungibili?) opportunità. Allora diventa logico rubare ciò che non si potrà mai avere, inventare ciò che non si è, colpire ‘l’altro che che sottolinea la propria diversità.
Su tutto, quasi unico elemento di contatto fra i mondi, così rigido nelle sue regole geometriche che valgono per tutti, il baseball. Il baseball di Babe Ruth, di Lefty Gomez, di Lou Gehrig e di Joe Di Maggio. Il baseball di cui il ragazzo è il campione locale. Il baseball in cui il ragazzo vede la sola possibilità di scalare, di sfondare quel muro, per raggiungere il successo, per diventare ricco, famoso oppure solo, in fondo, ‘americano quanto basta.
In questi anni in cui grande attenzione richiama il problema dei migranti, dell’integrazione, temuta o inseguita, dell’intercultura, le parole, non tanto ottimistiche in realtà e spesso ‘maledette, di John Fante possono essere una fonte inestimabile di riflessione per capire prima di tutto chi siamo stati, chi siamo oggi noi.
I temi di questo primo corpus letterario saranno poi sviluppati nel corso di tutta la produzione di Fante, come ad esempio nella cosiddetta ‘saga di Bandini e in ‘Un anno terribile il cui protagonista, Nick Molise, coltiva il sogno di arrivare in Major League, di cui ci occuperemo prossimamente.
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