Trovarsi a giocare contro quella maglia che lo ha cresciuto e lo ha fatto diventare grande non è mai facile. Meno che mai alla prima partita di campionato, quello del venticinquesimo anno in serie A. Roberto De Franceschi venerdì sera con la maglia del Godo De Angelis festeggerà le sue “nozze d’argento” con la massima serie. Una carriera iniziata ai tempi della Polenghi Lombardo Nettuno nel 1984, dopo un anno passato in A2 col Latina, trovandosi in squadra con molti elementi del glorioso Nettuno degli anni ’70 e un campione come Lenny Randle.
E fu l’inizio di una carriera a dir poco straordinaria. Col Nettuno prima e con la nazionale poi vinse tutto quello che c’era da vincere. Recordman delle valide, 1470 in carriera, e come si è soliti dire, ‘still counting”.
“Dico sempre che è l’ultima stagione, e infatti firmo solo contratti annuali afferma sorridendo ma a quarantadue anni ancora trovo gli stimoli per giocare. Mi ritirerò quando mi renderò conto di non riuscire più a dare un contributo importante”.
Perché contro il Nettuno non è mai una partita come le altre? Perché nel 2004 andò a Grosseto. “Io capii l’amarezza dei tifosi e della società, non se l’aspettava nessuno. Ma mi ero anche reso conto che era terminato un ciclo, i giocatori con i quali ero cresciuto e con i quali avevo vinto tutto si erano ritirati o si stavano per ritirare. E avevo bisogno di stimoli per rendere ai livelli a cui ero abituato”. Roberto non nasconde che si trattò di una decisione durissima da prendere, per di più da capitano della squadra. “Ci pensai moltissimo, per alcune notti non dormii neppure, poi accettai la proposta del Grosseto, che economicamente era molto alta. Poi lì il rapporto non fu idilliaco nell’ultimo anno, e nonostante tante altre proposte di squadre più blasonate lo scorso anno ho scelto Godo. Perché è una piccola società, dove salvarsi e provare a centrare i play off sono come uno scudetto. Una sfida personale, mia, ormai a quarantadue anni non devo più dimostrare niente a nessuno”.
Oggi a Godo lo chiamano ‘la leggenda, e lo guardano con ammirazione. Ma De Franceschi vuole ricordare anche chi lo ha messo in campo e lo ha aiutato in questa carriera. “Cominciai da bambino con Andrea Caiazzo che mi insegnò tutti i fondamentali, poi continuai con due persone che oggi purtroppo non ci sono più: Giancarlo Niccolucci e Peppe Mascia, quindi il salto in prima squadra con Giampiero Faraone, una breve parentesi con Giampaolo Mirra e quindi ancora con Faraone prima e con Bagialemani poi. In nazionale i ricordi più belli sono quelli col grande Silvano Ambrosioni. Ma è stato con Faraone il rapporto più intenso, lui mi ha insegnato non solo a stare in campo, ma proprio a ‘stare al mondo’, una sorta di scuola di vita la sua. E spero di poter ripetere la sua grande carriera, allenare in serie A e poi arrivare a guidare la nazionale”.
C’è ancora tempo però per allenare. Prima viene il campo, contro quel Nettuno che lo ha visto crescere e con il quale è diventato grande. “Contro il Nettuno non è mai una partita come le altre. Giocare con quella maglia, quella della tua città, ti dà uno stimolo particolare. Ormai sono passati diversi anni da quando me ne sono andato, i rapporti si sono ricuciti, e anche alla società devo molto. Non si può dimenticare chi ti ha cresciuto. Quest’anno poi hanno allestito una bella squadra, con un mercato importante e un entusiasmo crescente. Me ne sono accorto lo scorso anno quando sono andato a vedere le finali in mezzo ai tifosi del Nettuno, che ancora mi chiedono se torno o no”. Ancora in campo, dunque, almeno per raggiungere quell’obiettivo delle 1.500 valide, ormai vicinissimo. Poi si vedrà
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