Per chiunque mastichi un po' di storia del baseball, Bartlett Giamatti è una figura mitica per la sua traiettoria personale e sportiva. Quest'italoamericano di Boston, il cui nonno era emigrato da Napoli agli inizi del Novecento, si distinse in primo luogo per la sua carriera accademica. Studioso di letteratura rinascimentale, Giamatti insegnò all'Università di Yale e pubblicò fra l'altro importanti saggi su Spenser e Ariosto che gli valsero un indiscusso prestigio nel suo campo. Estremamente popolare fra i suoi studenti, nel 1978 venne eletto rettore di Yale, carica che ricoprì fino al 1986 e che abbandonò (attenzione!) per essere nominato presidente delle National League. Successivamente divenne anche Commissario della MLB dall'aprile al settembre del 1989, per pochi mesi in cui dovette affrontare e risolvere lo scandalo delle scommesse che portò alla squalifica a vita di Pete Rose. Quella di Giamatti è dunque una biografia a cavallo fra la letteratura e il baseball, segnata da un grande rigore intellettuale e un'altrettanto grande passione per il gioco che lo accompagnò per tutta la vita, fino alla morte che lo colse a soli 51 anni il 1º settembre 1989.
In questo senso, il suo testamento di studioso e appassionato è contenuto nel suo ultimo saggio, Take Time For Paradise: Americans And Their Games (Summit Books, 1989), che è per l'appunto il prodotto delle sue riflessioni sulla natura del baseball e sulle sue implicazioni letterarie, un libro che sviluppa alcune idee che ci serviranno da guida per le prossime letture.
Il saggio si articola su tre capitoli. I primi due sono dedicati all'analisi del rapporto fra gioco e lavoro nelle società umane alla luce del pensiero dei grandi filosofi dell'antichità. Il terzo -eccezionale- capitolo si intitola "Baseball as Narrative" e affronta il problema della struttura narrativa del baseball.
Giamatti comincia col considerare la forma del campo da gioco, dominata dalle simmetrie, costruita su cerchi, linee e angoli retti e scandita da combinazioni numeriche tutte basate sul tre, sul quattro e sui loro multipli: i lati del campo interno misurano 90 piedi; la distanza fra la tavoletta del pitcher (che misura 24 x 6 pollici) e il piatto è di 60 piedi e 6 pollici; il cerchio del mound ha un raggio di 9 piedi; il cerchio attorno al piatto ha invece un raggio di 13 piedi e contiene tre rettangoli, i box del battitore (6×4 piedi) e quello del catcher, di 43 pollici di larghezza e aperto sulla parte posteriore. Le linee di foul sono di lunghezza indeterminata e potenzialmente si estendono all'infinito, così come è indeterminata la durata del gioco che si svolge anch'esso su ritmi basati sul tre e sul quattro (nove inning, nove giocatori che corrono su quattro basi, tre out, tre strike, quattro ball). L'unica figura geometrica che rompe l'euritmia delle strutture è il piatto: uno sgraziato pentagramma da cui tutto ha inizio e tutto finisce, il centro magico del rituale giocato dalle due squadre, un luogo chiamato home.
Orbene, tutti gli sport di squadra a eccezione del baseball (e del cricket) si basano sulla divisione in due parti di un terreno rettangolare, ognuna delle quali è assegnata a una formazione che deve invadere il territorio avversario e conquistare un punto del campo opposto mettendo la palla in una porta, in un canestro, oltre una linea di meta. Le regole cambiano ovviamente da sport a sport: si possono usare le mani o i piedi, con o senza l'ausilio di speciali attrezzi da gioco, le misure del campo possono variare, così come la forma e le dimensioni della palla, ma sostanzialmente gli sport come il calcio, il rugby, il basket, l'hockey, la pallamano, la pallanuoto etc. costituiscono tutti delle varianti dello stesso schema, che è poi quello della guerra, del combattimento fra due popoli. Il modello narrativo che soggiace a quei giochi è dunque quello dell'Iliade, la lunga guerra fra greci e troiani cantata da Omero. Si tratta di narrazioni epiche che sottintendono una visione collettiva dello scontro: all'interno di una battaglia o di una partita di calcio è certo possibile individuare degli episodi particolari, delle imprese individuali o dei duelli fra campioni (l'attaccante e il difensore che lottano fra loro come Ettore e Achille), ma il respiro della narrazione rimanda comuque alla dimensione prevalentemente comunitaria della guerra.
Nel baseball invece, leggiamo una storia diversa: il racconto dell'uomo che abbandona la propria casa per intraprendere un viaggio rischioso dove la morte (l'eliminazione) è sempre in agguato. Quell'uomo – il battitore/corridore – scopre ben presto che il mondo è un luogo irto di pericoli, abitato da interbase e altri strani figuri che giocano assieme appunto per farlo fuori. E quando tocca la seconda base, ormai lontanissimo dal piatto che si è lasciato alle spalle, quell'uomo desidera solo una cosa: tornare a casa. Il modello narrativo che soggiace al gioco del baseball è dunque quello dell'Odissea, e il battitore (ognuno di noi) è un Ulisse che avanza per poter tornare al punto di partenza, che vuole giungere salvo a casa, che aspira a un ritorno (nostos, in greco, da cui nostalgia, "il dolore per il ritorno") che gli permetta di ricominciare da capo, di presentarsi di nuovo alla battuta per poi iniziare un nuovo viaggio. È un uomo solo che corre in senso antiorario quasi a voler fermare il tempo, sperando che il gioco, oltre che atemporale, sia anche eterno.
L'associazione fra il baseball da un lato e il motivo del viaggio e le sue implicazioni dall'altra produce quindi schemi narrativi estremamente fertili che sono stati ripresi più volte da molti scrittori. Per questo nel nostro prossimo appuntamento parleremo di un altro romanzo di Stephen King, The Girl Who Loved Tom Gordon (1999; in italiano La bambina che amava Tom Gordon, Sperling&Kupfer), splendido esempio di una vera e propria odissea giocata sulla falsariga di una partita sul diamante.
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