I racconti dell'Era della Palla Morta

Un secolo fa, quando i lanciatori dominavano la scena, i giornali sportivi si riempivano di articoli che ne cantavano le gesta. E anche di racconti che diedero l'avvio al genere della baseball fiction

Agli inizi del Novecento, molto prima dell'apparizione del primo grande romanzo sul baseball, The Natural ("Il migliore", 1952) di Bernard Malamud, ci fu in America una notevole fioritura di racconti incentrati sul battiecorri, pubblicati su riviste sportive o anche in raccolte che ebbero poi un notevole successo. Ne erano autori giornalisti oggi poco ricordati, come Charles Van Loan o Ring Lardner, che oltre a coprire i più diversi avvenimenti sportivi, scoprirono di avere talento anche per pezzi più letterari e scrissero storie ambientate sul diamante per riviste come The Saturday Evening Post.

Il baseball che ritraevano era quello della cosiddetta Dead-Ball Era, "l'Era della Palla Morta", un periodo storico che va grosso modo dall'ultimo decennio del Ottocento fino alla fine della Prima Guerra Mondiale in cui i lanciatori prevalevano sui battitori, dando luogo a statistiche che oggi sarebbero sorprendenti: punteggi strettissimi (una media di meno di 4 punti segnati a partita negli anni '10), pochi fuoricampo (la squadra con più homeruns ne metteva a segno una quindicina a campionato), medie battuta bassissime. Le cause del fenomeno vanno ricercate nella palla, che allora non aveva il nucleo di sughero e veniva usata per tutta la partita diventando sempre più sporca e quindi meno visibile, le grandi dimensioni di molti campi che rendevano difficile la realizzazione dei fuoricampo, l'apparizione di lanci come lo spitball e l'emery ball che imprimevano traiettorie irregolari alla palla. Conseguentemente, lo stile di gioco dovette adattarsi alle circostanze. I battitori non cercavano quasi mai la battuta di potenza, ma praticavano il cosiddetto inside baseball: battute corte e piazzate, molti bunts, un gioco d'attacco basato sulla velocità, con molte basi rubate, hit-and-run, squeeze plays. E apparvero anche nuovi colpi, come il Baltimore chop: il battitore schiacciava con violenza la palla a terra facendola rimbalzare in alto per ritardare la presa da parte dei difensori e sfrecciare così verso la prima base. La Dead-Ball Era era terminò, appunto, con l'introduzione della palla con il centro di sughero prodotta dalla Spalding, con la messa al bando delle manipolazioni della palla (lo spitball fu proibito nel 1919) e soprattutto con l'avvento di grandi battitori capaci di buttarla facilmente oltre la recinzione di fondo. Cambiò così lo stile dello swing, che divenne ampio a cercare la battuta lunga sullo stile del grande Babe Ruth, il colosso che cambiò il modo di giocare e che nel 1919 stabilì il suo primo record  di fuoricampo in un campionato (29), un primato strabiliante per l'epoca.

Ma fino ad allora i veri dominatori, gli idoli delle folle, erano stati senza dubbio i pitchers. Basti pensare ai duelli fra le due star del momento, il grande Christy Matthewson e Mordecai "Three Finger" Brown, sfide spettacolari che avevavo un po' il ruolo degli attuali Home Run Derbies. Era logico quindi che molti dei racconti della Dead-Ball Era avessero per protagonisti proprio i lanciatori.

Spigolando fra la produzione di quegli anni troviamo Coming Back with the Spitball, una novella di James Hopper pubblicata nel 1914 e recentemente ristampata in anastatico dalla Applewood Books (chi volesse leggerla in inglese potrà trovarla per pochi euro sulle più note librerie on-line). Forse non si tratta del più bel lavoro di baseball fiction di quel periodo (molto migliori sono i racconti di Lardner e Van Loan, di cui anche parleremo), ma il libricino di Hopper rende bene l'idea del baseball giocato un secolo fa e soprattutto ci presenta nientemeno che una versione romanzata della "scoperta" della terribile "palla sputo", quello spitball che sarebbe stato illegale di lì a pochi anni, ma che allora costituiva un vero incubo per i battitori.

Dunque, Tom Carsey è un pitcher dei New York Giants che con l'avanzare dell'età ha iniziato a declinare. I Giants lo vendono ai Prune Pickers, una squadra di semiprofessionisti di una lega indipendente della California dove potrebbe chiudere tranquillamente la carriera lontano dal clamore e dal prestigio delle Major Leagues. Ma Tom si lascia andare, cominicia a bere, perde l'interesse verso il gioco e con esso la forma fisica, sino a essere confinato in panchina anche in quello che è un mediocre campionato fra paesini della West Coast. È la classica "crisi del campione" che rischia di trasformarsi in un dramma personale. Tom cerca di reagire, si lascia guidare da un medico, il dottor Hollinsworth, che gli prescrive una vita più sana e un esercizio fisico controllato.

Tuttavia, la vera svolta (la "peripezia" che inverte il cammino della narrazione, questa volta in senso ascendente) avviene per caso. Un giorno Tom si offre di aiutare la sua padrona di casa, la ancora piacente vedova O'Reilly, a lavare i piatti. Mentre si dà da fare con lo strofinaccio, una scodella bagnata gli scivola fra le dita e finisce a terra. Tom comincia a riflettere e si domanda cosa sarebbe successo ai suoi lanci se avesse bagnato una parte della superficie della palla. Il giorno dopo in allenamento sputa su una cucitura un po' del tabacco che stava masticando e prova a lanciare una retta al suo catcher. La palla viaggia veloce e poco prima del piatto cambia direzione in maniera imprevedibile: Tom ha "scoperto" (o inventato?) lo spitball. Ma non pensa di usare il suo nuovo lancio con i Prune Pickers. Telegrafa invece al manager dei Giants e chiede che gli sia data un'altra opportunità. Viene convocato e sale sul mound come rilievo proprio all'ultimo inning della partita decisiva delle World Series contro i Phillies. Adesso Tom non ci pensa due volte: sfodera il suo spitball e fa vincere i Giants. Ma dopo il trionfo, quando gli viene offerto un contratto principesco per continuare a giocare con la squadra di New York, Tom annuncia che ritornerà in California, comprerà i Prune Pickers, ne diventerà l'allenatore e sposerà la bella vedova O'Reilly.

Insomma, una storia semplice, con personaggi dalla psicologia poco profonda, ma interessante nel suo tentativo di romanzare la cronaca sportiva di quegli anni. Infatti è facile scoprire sotto i nomi dei personaggi secondari i profili di giocatori dell'epoca: McGrath, il manager dei Giants nel libro, è in realtà il mitico allenatore-giocatore John McGraw, mentre la figura del pitcher Matterson nasconde il grande Christy Matthewson. E lo stesso protagonista, Tom Carsey, ricorda in qualche modo Ed Walsh, il pitcher con la miglior media GPL della storia (1.82) che rese popolare lo spitball e che nel 1912, presentendo l'inizio del proprio declino, si prese un anno sabbatico per far riposare il braccio.

Ma in fondo il vero protagonista della novella di Hopper è proprio lo spitball, un lancio furbesco, un espediente truffaldino, quasi un trucco da monelli, un po' il simbolo di quegli anni ruggenti ed eroici ancora senza doping e senza un professionismo esasperato, in cui il massimo della trasgressione consisteva nello sputare sulla palla.

Informazioni su Luigi Giuliani 103 Articoli
Un vita spezzata in tre: venticinque anni a Roma (lanciatore e ricevitore in serie C), venticinque anni in Spagna (con il Sant Andreu, il Barcelona e il Sabadell, squadra di cui è stato anche tecnico, e come docente di Letteratura Comparata presso le università Autónoma de Barcelona e Extremadura), per approdare poi in terra umbra (come professore associato di Letteratura Spagnola presso l'Università di Perugia). Due grandi passioni: il baseball e la letteratura (se avesse scelto il calcio e l'odontoiatria adesso sarebbe ricco, ma è molto meglio così...).

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