Il rimorso di aver giocato sporco

"Calico Joe", l'ultimo romanzo di John Grisham in uscita in Italia per la Mondadori, ci mostra il duello fra un pitcher anziano e un giovane battitore, una sfida senza esclusione di colpi giocata sul filo del rancore

Ci sono molti modi di raccontare il baseball. Puoi descrivere l'avventura individuale del battitore -corridore come un viaggio lungo e accidentato verso casa. Puoi addentrarti nel dugout e negli spogliatoi per vivere dall'interno la dimensione collettiva del gioco di squadra. O puoi anche concentrarti su quanto circonda la partita, sulle implicazioni sociali e culturali di questo sport atemporale per eccellenza. John Grisham ha invece scelto di costruire il suo primo vero e proprio romanzo sul baseball seguendo le traiettorie vitali di un lanciatore e di un battitore, due giocatori differenti per provenienza, formazione, età, carattere, che giungono a incontrarsi due sole volte nella loro vita: la prima allo Shea Stadium di New York, la seconda trent'anni dopo sul diamante di un liceo dell'Arkansas.

Siamo nel 1973. I Chicago Cubs hanno appena richiamato dalle serie minori il giovane Joe Castle per una sostituzione. Joe è il classico rookie che viene dalla provincia. È il più bravo di tre fratelli, tutti e tre giocatori nei tornei locali di Calico Rock, Arkansas. Sembra una storia come tante nella baseball fiction: ecco l'esordiente che per caso è riuscito ad approdare in Major League, vediamo i suoi rapporti con la squadra, la sua crescita come giocatore e come uomo, e via discorrendo. Ma stavolta il racconto si impenna subito. Joe stupisce fin dalla prima partita, il 12 luglio 1973 contro i Phillies: con 4 su 4 alla battuta e tre fuoricampo trascina alla vittoria i Cubs. E la striscia vincente non si ferma: continua a battere valido fino a collezionare 15 hits di seguito, sfoderando un repertorio eccezionale di fuoricampo, tripli, doppi, bunt a sorpresa, basi rubate, con una media sempre superiore a 500, stabilendo dei record impossibili e guidando la squadra nella rimonta in campionato. A Calico Rock i suoi compaesani entusiasti seguono per radio le gesta del ragazzo, ribattezzato dai giornali Calico Joe. A Chicago, i tifosi dei Cubs sono in delirio mentre la squadra percorre la geografia del paese vincendo una partita dietro l'altra.

Nel frattempo, i New York Mets sono in forma e viaggiano ai piani alti della classifica. Nel loro roster c'è Warren Tracey, un pitcher trentaquattrenne già in fase di declino, buon fastball, discreta curva e soprattutto un pessimo carattere. È un esponente della "vecchia guardia", un duro, uno che conosce le regole non scritte del gioco, che sa come far abbassare la cresta ai giovani che esordiscono spavaldamente sullo scenario delle Major Leagues. Sprezzante e spietato in diamante, fuori dal campo è un marito manesco e un padre assente incapace di costruire un benché minimo rapporto con suo figlio Paul.

Ed è proprio il piccolo Paul a raccontare – trent'anni dopo – la storia del rookie Calico Joe e del pitcher veterano Tracey Warren, di cosa successe quell'11 agosto 1973 quando i due si fronteggiarono allo Shea Stadium nel primo incontro fra i Cubs e i Mets.

Il rapporto picher-batter è il cuore del gioco, la sfida da cui tutto ha inizio, l'aspetto della partita più carico di significati "individuali" all'interno della dimensione collettiva dello scontro. Asimmetrico ma non impari, il duello fra il lanciatore e il battitore è fatto di tecnica, ma anche di psicologia, di grinta, di regole cavalleresche che sublimano la violenza "a distanza" che corre sulla linea che unisce il mound e il piatto di casa base. Non è solo questione di abilità. Ti aspetti un fastball? Ti mando fuori giri con un cambio. Hai già due strike sul groppone? Vediamo se abbocchi a una curva esterna. Ti avvicini troppo e vuoi coprire il piatto? Eccoti una veloce interna per spaventarti e farti allontanare. E quando la tensione rasenta l'odio e non c'è altro modo per piegarti, sta attento: potresti ricevere un beanball, una veloce a 95 miglia che ti punta dritto alla testa.

Grisham racconta con attenzione e sapienza i percorsi di Joe e Warren fino al loro incontro-scontro  allo Shea Stadium, alternando i due scenari in un crescendo ben costruito e miscelando la finzione (ovviamente né Calico Joe né Warren Tracey sono mai esistiti) con la realtà (il resto dei giocatori sono quelli che popolavano i diamanti USA degli anni '70). Inoltre intreccia la storia di quell'estate del '73 con i ricordi di Paul, il narratore ormai adulto che descrive l'ambiente infernale da lui vissuto allora in famiglia, le frustazioni di un bambino che adorava il baseball ma che Warren, suo padre, sapeva solo ignorare o umiliare. È così che nelle pagine del romanzo il duello fra i due giocatori si inserisce nel quadro tematico dei rapporti padre-figlio, un leitmotiv classico nella baseball fiction saldamente radicato nell'immaginario culturale americano (pensiamo per esempio a Shoeless Joe di W. Kinsella, in Italia pubblicato dalla 66thand2nd,  e alla sua versione cinematografica in L'uomo dei sogni). In Calico Joe il motivo è ripreso e letto in chiave di rimpianto: il baseball è il luogo in cui le carriere sportive e gli affetti si spezzano sul nascere, e dove le colpe del passato trovano un'espiazione parziale solo in limine mortis. Grisham vuole raccontarci l'amarezza per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, per una vita rimasta indietro e non più recuperabile: scivoliamo via poco a poco, fra i ricordi e i box score di altre stagioni, le storie di altre persone che non siamo più noi.

Se questo era il progetto di scrittura, va detto che l'autore lo ha realizzato solo in parte. Già altrove Grisham, ex avvocato e autore di successo di gialli giudiziari ma anche per anni appassionato coach della squadra di Little League in cui militava suo figlio, aveva evocato il baseball come attività cruciale nella vita affettiva di un bambino. Pensiamo al romanzo The Painted House, 2001 (in Italia tradotto dalla Mondadori, La casa dipinta, 2002), in cui le immagini della vita dell'Arkansas rurale degli anni '50 sono punteggiate da partite giocate fra i campi di cotone. Ma in Calico Joe l'operazione è forse meno riuscita, nel senso che se Grisham dimostra di essere ancora una volta un maestro nella costruzione delle trame, stavolta non approfondisce sufficientemente la psicologia dei tre protagonisti. Forse lavorando con maggiore accuratezza alcuni dialoghi, i profili di Joe e soprattutto del narratore Paul avrebbero potuto essere qualcosa di più che abbozzi di istanze narrative che sono sì necessari a far progredire la storia, ma che nel complesso risultano un poco superficiali. Intendiamoci, non mancano le pagine brillanti, e il romanzo (snello: circa 200 pagine) si lascia leggere con piacere. Ma l'impressione è che gli appassionati di baseball troveranno nel libro molto di più di quanto potranno rinvenirvi i "comuni" lettori. Perché è all'interno delle parti più attinenti al battiecorri che Grisham riesce a esprimere una poesia che è poi quella insita nel gioco: c'è la magia dei numeri che descrivono le partite, le "lezioni" nel cortile di casa di un padre violento che spiega a suo figlio come lanciare "sporco", l'emozione di un rincontro finale sulla geometria del diamante.

Certo, Calico Joe è anche la storia di una colpa, di una mancata espiazione, di un tentativo di redimere una vita sbagliata. È ciò che potrebbe davvero trasformare il romanzo in una favola, con la sua bella morale più o meno esplicita e un finale agrodolce. Ma il libro non arriva a tanto. Se, come sanno i teorici della letteratura, ogni narrazione ha dei "vuoti" che il lettore "riempie" per costruire il significato del testo, allora saremo noi -giocatori, ex-giocatori, tifosi o semplicemente appassionati di baseball- a ricorrere ai nostri ricordi, alle nostre sensazioni per dar corpo alla vicenda di un ragazzino che un giorno vide con apprensione suo padre affrontare sul campo quello che fu il suo eroe per un'estate.

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Un vita spezzata in tre: venticinque anni a Roma (lanciatore e ricevitore in serie C), venticinque anni in Spagna (con il Sant Andreu, il Barcelona e il Sabadell, squadra di cui è stato anche tecnico, e come docente di Letteratura Comparata presso le università Autónoma de Barcelona e Extremadura), per approdare poi in terra umbra (come professore associato di Letteratura Spagnola presso l'Università di Perugia). Due grandi passioni: il baseball e la letteratura (se avesse scelto il calcio e l'odontoiatria adesso sarebbe ricco, ma è molto meglio così...).

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