Nel "Detroit Institute of Arts" c'è un altro quadro che ci parla di baseball, al piano terra, nella sezione dedicata alla pittura americana dell'Ottocento. Appeso a due metri da terra troviamo The Ball Players, una tela di dimensioni ridotte (40×60) dipinta nel 1871 da uno dei grandi artisti americani dell'epoca, William Morris Hunt.
L'opera presenta uno scorcio campestre: sul limitare di un centro urbano una spianata leggermente in discesa è il luogo scelto da tre uomini per giocare. Siamo in estate, il fondo del terreno oscilla fra l'ocra e il marrone, l'erba deve essere ormai secca per il calore, forse si tratta di un campo di grano dopo la mietiura. Anche gli alberi, di un verde scuro, che segnano assieme alle case il bordo superiore del terreno, ci parlano della bella stagione, ma non c'è brillantezza, non c'è una particolare luminosità. La luce sembra diffusa, non proviene da nessun punto dello spazio: le ombre sul terreno -se ci sono- sono appena accennate. Il lato destro del quadro non ha un limite, sconfina oltre la cornice a suggerire un campo vasto e illimitato.
I tre uomini sono allineati in diagonale. I due giocatori di spalle, con in testa dei cappelli chiari a larghe tese, giacca a maniche lunghe e pantaloni neri, sono un battitore e un catcher in piedi. Di fronte, lontano, c'è un lanciatore in maniche di camicia con un gilet e un cappello nero. Il volto è una macchia di colore.
Il pitcher e il catcher hanno entrambi le mani sui fianchi, ritratti in pausa fra un lancio e l'altro. Fra di loro, il battitore destro ondeggia la mazza abbassata, attende spostando il perso del corpo verso la gamba sinistra che il pitcher effettui il caricamento.
Ciò che unisce le tre figure è dunque l'attesa di un'azione imminente, il lancio che traccerà nell'aria una traiettoria lineare che trafiggerà lo spazio in diagonale rispetto all'osservatore. Un evento effimero. Un'azione fine a se stessa il cui fine non è la produzione di qualcosa, un gesto che contrasta come altri gesti di altri uomini che tempo prima hanno portato a termine la mietitura del campo. Ora su quel terreno il lavoro ha lasciato il posto al gioco.
Il momento è leggero eppure solenne. Torna in mente un quadro famosissimo, L'Angelus del francese Millet, in cui due contadini interrompono per un momento la dura fatica dei campi per pregare assieme nell'ora canonica. Ecco: come la coppia dei contadini europei del dipinto di Millet, anche i tre giocatori americani stanno eseguendo un rito su un campo di lavoro, anche loro trasformano il luogo in cui si trovano, assegnano al campo una nuova funzione. Ma nel quadro di Hunt il raccoglimento statico del Vecchio Mondo si trasforma nella solennità e allo stesso tempo nella leggerezza dei riti del Nuovo Mondo.
Apparentemente, il sottotesto del dipinto ci parla del mondo pastorale in cui sin dagli albori il baseball rappresenta se stesso. Il mito delle origini, di un gioco sorto dall'attività agraria, legato al ciclo delle stagioni, a un mondo arcaico e innocente. Ma a ben vedere non è così, il messaggio del quadro non è affatto ingenuo: dai vestiti, dal profilo middle-class delle case, capiamo che non stiamo osservando un momento di ricreazione di tre lavoratori dei campi, ma di tre cittadini che cercano nel gioco un momento di svago.
Tre giocatori senza una squadra. Un gioco fra tre maschi adulti che nel lettore/spettatore postmoderno evocano la scena iniziale di The Natural (1952) di Bernard Malamud, con Roy Hobbs che sfida Walter "The Whammer" Whambold. E pensando a quella scena mi allontano dal The Ball Players, rivedendo non solo Roy Hobbs, ma anche me stesso in un prato della periferia romana di tanti anni fa, in attesa di un lancio, come milioni di altri ragazzi in tanti altri campi brulli di periferie cittadine trasformati – per un momento intenso e meraviglioso – in diamanti.
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