Quel numero appartenuto al grande Jackie Robinson (primo giocatore di colore in Major League), è stato ritirato da tutte le squadre americane. Non ci sarà mai più un altro 42, dopo Rivera. Ed è probabile che non ci sarà nemmeno un altro come lui, tanto questo giocatore alto e mingherlino ha dominato la scena negli ultimi 17 anni. Ma chi è questo lanciatore che tutti i commentatori sportivi si affannano a definire il migliore rilievo della storia del baseball?
Mariano Rivera nasce a Panama nel novembre del 1969, figlio di una famiglia di pescatori, e sopravvive a un'infanzia povera e trascorsa con gente poco raccomandabile, lavorando prima sulla barca del padre e poi come meccanico. A baseball gioca, solo occasionalmente, in una squadra amatoriale di Panama City come interbase. Un giorno il lanciatore titolare della squadra si fa male e lui si propone come sostituto. E' la svolta. Le sue performance sul monte di lancio sono buone, tanto da attirare l'attenzione di uno scout degli Yankees che lo mette sotto contratto per la cifra tutt'altro che memorabile. Tremila dollari.
Così Rivera lascia Panama per la prima volta nella sua vita e inizia la trafila con le squadre delle leghe minori affiliate agli Yankees. I risultati sono da subito sorprendenti. Da emerito signor nessuno, Rivera sale costantemente di livello grazie ad un discreto controllo, un assortimento di insidiose palle veloci e ad un buon cambio di velocità. Si dà tanto da fare che nel 1995 è considerato il nono miglior prospetto della squadra di New York e a metà anno fa il suo esordio – non particolarmente brillante – in prima squadra.
L'anno successivo, però, le cose cambiano: Rivera si impone da subito come setup-man del closer Wetteland e infila numeri importanti che aiutano la squadra ad aggiudicarsi le World Series, spingendo i vertici dirigenziali a scommettere su di lui come nuovo closer per la stagione seguente. Il 1997, infatti, è il suo anno. Rivera è davvero dominante nel suo nuovo ruolo (43 salvezze) e comincia ad utilizzare quello che sarà il suo marchio di fabbrica, una cut-fastball praticamente imprendibile. Quello stesso anno la lega annuncia di voler ritirare la maglia numero 42 per onorare Jackie Robinson. A Rivera e a un'altra manciata di giocatori, però, viene concesso il lusso di continuare ad indossarla fino alla fine della loro carriera.
Grazie ad una dedizione straordinaria negli allenamenti e al suo lancio imprendibile – praticamente l'unico che Rivera utilizzerà da lì in poi – il giocatore panamense anno dopo anno si conferma il migliore nel suo ruolo. Il migliore di gran lunga. Partecipa 13 volte all'All-Star Game, porta a casa il maggior numero di salvezze di tutti i tempi, 652, e vince le World Series con i suoi Yankees con una frequenza che fa imbestialire tutti i tifosi delle altre squadre. Rivera è un campione straordinario che insieme a Jeter, Posada, Petitte costituisce il cuore della plurititolata squadra newyorchese.
La cosa che rende Mariano Rivera diverso da questi e da molti altri giocatori eccezionali che hanno indossato la casacca a strisce blu è il fatto che non sia mai stato coinvolto in alcuna controversia. Di nessun genere. Su Rivera non c'è mai stata l'ombra del doping, non ha mai detto una parola di troppo con i media ed ha condotto una vita privata irreprensibile (conosce sua moglie da quando era alle elementari). Una star sui generis dunque, specialmente in una città caotica e nevrotica come New York dove ogni notizia ci mette poco ad assumere le dimensioni dello scandalo.
Dobbiamo dunque dire addio alle cutter del closer dalla faccia tranquilla. E i media di una nazione pare proprio che se ne siano accorti per tempo, tanto che il sindaco Bloomberg ha anche indetto un "Mariano Rivera day". Eccessivo? Difficile dirlo. Come è difficile stabilire adesso se i suoi record saranno duraturi e leggendari come quelli di altre stelle degli Yankees, Gerhig, Di Maggio e Ruth su tutti o semplicemente il segno del tempo (e del gioco) che cambia.
Di certo possiamo dire che ancora una volta una stella di New York oscura con le sue imprese quelle di altri giocatori. Chiedetelo al povero Todd Helton, pur dignitossissimo prima base dei Colorado Rockies, che chiude la sua carriera nell'indifferenza generale, perché ancora una volta tutti i riflettori, le telecamere e gli occhi della nazione sono puntati sul Bronx e su quello che succede allo Yankee Stadium.
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