A volte -sempre?- la storia ripete se stessa. A volte abbiamo la sensazione di aver già visto, già vissuto -in un sogno? in un libro?- un attimo di realtà, un brandello di vita. Ed eccoci allora seduti davanti al televisore mentre osserviamo Zileri andare in battuta all'undicesimo inning di una partita che all'inizio del nono sembrava già conclusa. E dentro di noi qualcosa vibra, qualcosa riemerge in questo presente che in qualche modo abbiamo già vissuto. Le immagini e i ricordi si sovrappongono.
È il 3 ottobre 1951, siamo a New York, al Polo Grounds. La partita è quella dello spareggio fra i Giants e i Dodgers per il pennant della National League (a quel tempo si giocavano i play off solo se due squadre giungevano in parità alla fine della regular season). È l'ultimo inning, due out, il punteggio è di 4 a 2 per i Brooklyn Dodgers. I Giants hanno corridori in seconda e in terza. Sul mound è salito da poco Ralph Branca. Alla battuta è il turno di Bobby Thompson. Lontano, all'esterno, Andy Pafko arretra leggermente verso la recinzione del fuoricampo. È il momento immortalato da Don DeLillo nel racconto Pafko at The Wall, cinquanta splendide pagine che poi costituiranno -con qualche ritocco- il primo capitolo di quello che è considerato da molti il suo miglior romanzo, Underworld (1997).
E ora eccoci al Gianni Falchi. Per Bologna sul monte c'è Manauris Báez. Due out, nessuno in base. Zileri si avvicina al piatto. All'esterno centro Paolino Ambrosino sta osservando i movimenti attorno a casa base. Immagini il nervosismo, la tensione, i muscoli ormai affaticati eppure reattivi. Vedi Báez cominciare il caricamento, ma è Branca a fa partire il fastball, è Bobby Thompson a far scattare lo swing, mentre Ambrosino intuisce dall'esplosione della mazza che stavolta è dura, è maledettamente dura, e Pafko corre all'indietro sul verde del campo esterno del Polo Grounds e sul bianco delle pagine di DeLillo, e la palla vola lontana sulle teste dei giocatori, i Giants stanno per ribaltare il risultato e vincere il pennant, mentre un uomo con un fazzoletto arancio al collo e sua figlia piccola in braccio salta sugli spalti e i tifosi del Rimini gridano incontenibili assieme a quelli di New York, e Ambrosino tenta un'inutile scalata. Poi l'urlo di dolore, la caduta, la palla oltre il muro. Un segno di impotenza, quello di Ambrosino, come impotente appare nelle foto dell'epoca lo sguardo perso di Pafko appoggiato incredulo al muro del Polo Grounds.
Azioni, nomi, immagini che si incrociano in quella forma viva di narrativa collettiva che è il baseball. Sensazioni esaltanti, ma anche offuscate da un velo di tristezza. I Dodgers e i Giants avrebbero lasciato di lì a qualche anno la città di New York. Lo stadio del Polo Grounds sarebbe stato abbattuto poco dopo.
E Rimini e Bologna nei prossimi giorni continueranno la loro serie, e noi ci emozioneremo cercando di dimenticare per un momento le tante amarezze di questi anni. Ecco, in questa estate bastarda, in questa IBL troppo corta, in questa Coppa Italia monca, ci sentiamo come l'esterno scavalcato dagli eventi, come il giocatore che segue con gli occhi oltre il muro una palla ormai irraggiungibile. E allora quel salto velleitario, quella caviglia gonfia, quella sensazione di impotenza sono anche il nostro salto, la nostra caviglia, la nostra impotenza. Oggi siamo tutti Andy Pafko, siamo tutti Paolino Ambrosino.
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