Scrivere di baseball e letteratura nella rubrica "I libri del dugout" è per me un'esperienza bellissima perché mi permette, fra l'altro, di entrare in contatto con appassionati di baseball che ogni tanto commentano gli articoli nella pagina o mi scrivono privatamente con apprezzamenti, critiche, domande, opinioni. Fra le tante, c'è una questione che ogni tanto ritorna in quei commenti, e che forse merita da parte mia una risposta più articolata, proprio perché tocca un nodo centrale del rapporto fra il lettore/tifoso italiano e i libri di baseball fiction: quella delle traduzioni dei termini tecnici del nostro sport. Proverò allora a spiegare il mio punto di vista sul fatto che, per esempio, nella recente edizione italiana de Il grande romanzo americano di Philip Roth "strikeout" venga tradotto come "cappotto" (p. 80), "lead-off batter" come "battitore partente" (p. 107) o "walk" (la base su ball) come "passeggiata" (p. 187). La prenderò da lontano, accennando a questioni che i teorici della letteratura conoscono bene.
Per quanto grande possa sembrare il numero di libri esistenti al mondo, in realtà solo una piccola parte dei romanzi, saggi, raccolte di poesie etc. che si scrivono ogni giorno giungono a essere pubblicati, a essere convertiti in quel prodotto commerciale che chiamiamo libro, sia esso cartaceo o in formato digitale. Chi decide se un libro può "esistere" o meno sono le case editrici, che valutano ogni opera originale che giunge alle loro mani in base a analisi di mercato. Ovviamente le case editrici non sono tutte uguali per grandezza, specializzazione, modalità di pubblicazione e diffusione, pubblico, politiche di mercato ecc. Diciamo che, semplificando un po' il discorso, esistono due tipi di produzione editoriale: quella di ciclo rapido che cerca il best-seller (il libro che può giungere a un pubblico vasto, che viene pubblicato in tirature altissime che richiedono grandi investimenti ma possono generare ricavi ingenti in tempi molto brevi) e quella di ciclo lento, che punta su prodotti di nicchia a tirature ridotte -un migliaio di copie al massimo, spesso molto meno, per cui oggi si usa sempre di più l'edizione digitale o il print-on-demand– ; o sui classici, cioè sui cosiddetti long-sellers, che assicurano introiti ridotti ma durevoli nel tempo. Per capirci, come esempi di prodotti dei due cicli potremmo dare da una parte Il codice Da Vinci, dall'altra un'edizione dell'Odissea. Ognuno di questi libri risponde agli interessi di particolari gruppi di lettori che si posizionano diversamente sul mercato. (Per chi fosse interessato, sto accenando qui alla definizione di campo letterario di Pierre Bourdieu).
Ora, quando un autore scrive (e un editore pubblica) lo fa sempre pensando a un tipo determinato di destinatario: il pubblico giovanile, quello femminile, i lettori di destra o di sinistra, gli appartenenti a una minoranza sociale o etnica o culturale, gli specialisti di una certa disciplina, etc. Questo vuol dire che ogni testo "prevede" un "lettore implicito" o "lettore modello", e contiene in sé già dal momento del suo concepimento una serie di strategie testuali che lo indirizzano verso un tipo di ricettore che possieda delle determinate competenze linguistiche, culturali, letterarie, ecc. Se, ad esempio, mi regalano un romanzo di Haruki Murakami in lingua originale o un trattato di fisica quantica, ringrazierò gentilmente (ipocritamente?) del dono, e poi proverò a sbolognare il libro a qualche conoscente che sappia il giapponese o che riesca a districarsi fra pagine e pagine di formule matematiche. Ma non sono io a scartare quei libri, sono loro a "scartare" me, dato che sin dall'inizio è previsto che il libro "scelga" il proprio lettore. (Qui il riferimento è alle teorie della ricezione di autori come Wolfgang Iser e Umberto Eco).
La stessa cosa accade con i libri tradotti. La traduzione, intesa in senso generale, è quel processo per cui un testo (ma anche un alimento, un capo d'abbigliamento, un genere musicale…) passa da una cultura all'altra adattandosi ai criteri, alle abitudini, ai sistemi di interpretazione ecc. del paese di arrivo. Di nuovo le case editrici mettono in moto meccanisimi decisionali che hanno a che fare con il mercato: davanti a un'opera in lingua straniera esse valutano cioè l'esistenza di un certo tipo di lettore fra il loro pubblico potenziale per poi decidere in primo luogo se tradurre e pubblicare o meno il libro. È evidente che nel caso della baseball fiction c'è un'enorme differenza fra gli USA e l'Italia per quanto riguarda le competenze del lettore medio, e il "lettore implicito" di quei testi non coincide da noi con il profilo della maggior parte dei lettori reali. La prima (ovvia) osservazione da fare è quindi che in Italia i libri che parlano di baseball trovano enormi difficoltà sul mercato, e in generale non vengono tradotti.
Che cosa spinge un editore italiano a pubblicare un romanzo sul baseball? Ci sono due possibilità: o ci si rivolge a un pubblico "generalista", o si individua il target del libro nella nicchia degli appassionati di baseball. Nel primo caso si può cercare di sfruttare una qualche circostanza esterna che faccia da traino, come l'esistenza della versione cinematografica del romanzo, che da noi arriva di solito prima della traduzione del libro (è il caso, per esempio, di Shoeless Joe di Kinsella e del film L'uomo dei sogni) oppure si tenta la fortuna puntando su un classico o su un autore di successo (è il caso di The Natural/Il migliore di Bernard Malamud, o di Calico Joe, di John Grisham). Ma anche il richiamo del grande nome può non essere sufficiente e la traduzione può tardare molto ad apparire.
Una volta decisa la pubblicazione, la traduzione può oscillare fra due poli: cercare di avvicinare il testo all'orizzonte della cultura d'arrivo, rendendo familiare la realtà straniera al lettore (traducendo, per esempio, "pancake" con "frittella"), oppure lasciando in lingua originale i nomi di referenti per i quali non vi è una traduzione esatta (quindi lasciando nel testo "pancake"), producendo così una sensazione di straniamento nel lettore.
Vediamo ad esempio il caso de Il grande romanzo americano di Philip Roth: pubblicato nel 1973, tradotto una prima volta dagli Editori Riuniti nel 1982, viene poi lasciato nel dimenticatoio per trent'anni, un trentennio che in Italia è coinciso col declino del baseball e con un forte calo della presenza del nostro sport nei mezzi di comunicazione nazionali, con la conseguente riduzione della platea di pubblico competente capace di apprezzare una storia così piena di riferimenti tecnici al gioco. Scaduti i diritti acquisiti a suo tempo dagli Editori Riuniti, ecco che si fa avanti l'Einaudi, che nel 2013 torna a pubblicare il romanzo. L'intenzione della casa editrice di Torino è quella di completare il proprio catalogo in cui è già presente il resto della produzione di Roth, un autore che da anni è in odore di Nobel. Il target dell'operazione sono in primo luogo coloro che magari hanno già letto e apprezzato capolavori come La macchia umana o Pastorale americana, lettori italiani che già conoscono Roth e a cui viene offerta la "novità" di un vecchio romanzo di Roth introvabile da decenni. Per questi lettori, che perlopiù non conoscono il baseball, non è importante che nella versione italiana una battuta in foul venga tradotta "in fallo" (p. 255) o che l'area dello strike venga indicata come "la zona di lancio" (p. 323), purché per loro sia possibile seguire la storia e apprezzarne non tanto i dettagli tecnici di uno sport per loro piuttosto "opaco", quanto altri aspetti del romanzo come l'intreccio, la costruzione dei personaggi, il gioco metaletterario, etc. Certo, il traduttore avrebbe potuto documentarsi meglio, cercare di sapere i termini tecnici usati nel baseball italiano (ma anche qui il lessico nostrano oscilla: il fastball – o "la" fastball? – è una "dritta", una "retta", una "tesa"…; il corridore è preso "in trappola" o "in ballerina…"; la stessa palla è "pallina" al Nord, "palletta" nel Lazio…), o magari lasciare i termini in inglese (ma questo avrebbe comunque agevolato ancor meno la comprensione dei lettori digiuni di baseball). Il traduttore ha tirato per la via di mezzo, a volte traducendo (non sempre con precisione), altre volte lasciando inalterati i vocaboli originali, rimanendo a mezza strada fra il polo "familiarizzante" e quello "straniante". Ma il fatto davvero importante qui è che, dal punto di vista economico, per la casa editrice e per il traduttore il gioco non vale la candela: noi appassionati italiani di baseball siamo troppo pochi e non siamo stati individuati come target dai responsabili del marketing dell'Einaudi, non siamo un settore di mercato particolarmente appetibile per quello che sopra abbiamo definito il "ciclo di produzione veloce". Insomma, le cattive traduzioni sono la conseguenza -l'ennesima- del nostro declino come sport, della nostra ormai quasi completa invisibilità nell'orizzonte culturale e mediatico italiano, e il bestseller di Roth qui rischia di diventare un prodotto di nicchia. (Concediamo però a Vincenzo Mantovani, traduttore de Il grande romanzo americano, l'onore delle armi: se a volte è incerto sui termini del baseball, in altre occasioni se la cava ed aggiunge persino delle note a pie di pagina per chiarire alcune questioni tecniche, e comunque le pagine di Roth contengono ben più ardue difficoltà linguistiche e stilistiche che egli ha saputo brillantemente superare).
Se dunque le cose vanno male in Italia per la baseball fiction tradotta nel "ciclo di produzione veloce", sull'altra sponda del campo letterario, quella delle pubblicazioni "di nicchia", troviamo delle situazioni rincuoranti. Il caso più notevole è quello della casa editrice romana 66thand2nd, specializzata in romanzi che hanno per tema lo sport, che all'interno dei libri mette in atto una doppia strategia verso i lettori: da una parte vengono contrattati traduttori che dimostrano una buona conoscenza del gioco e della sua terminologia, dall'altra i curatori aggiungono ai volumi pagine illustrative sul baseball e le sue regole, con tanto di schema esplicativo di un diamante, a beneficio del grande pubblico. È evidente tuttavia che nella situazione attuale libri pubblicati dalla 66thand2nd come Il curioso caso di Sidd Finch, di George Plimpton, non possono aspirare a vendere un numero elevatissimo di copie, non possono essere best sellers. Ma potrebbero diventare dei long sellers se si diffondesse la conoscenza del baseball (anche in quanto fenomeno culturale) e il gusto per la lettura della baseball fiction fra noi appassionati italiani di battieccorri, con conseguente aumento dei titoli pubblicati e miglioramento delle traduzioni. È quanto una rubrica come "I libri del dugout" vuol contribuire a far accadere.
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