“L’altro giorno mia mamma mi ha detto: un giorno avevo 30 anni e il giorno dopo ne avevo già 60. Quindi goditi la vita e cerca di vedere il mondo più che puoi…”. Daniel Bonanno raccoglie al volo la filosofia di mamma Anita e sorride così al tempo che passa: “Già, 60 anni: sinceramente non me li sento, ma ci sono. Sono stato in America la scorsa settimana a trovare la mia famiglia per festeggiare il Thanksgiving e il compleanno di quella che chiamo ancora la mia sorellina, anche se ne ha già 54… E soprattutto ho festeggiato mia mamma che ne ha 88”. Un viaggio alle radici di questo italo-americano, nato il 28 ottobre del ’58 a Racine, cittadina del Wisconsin, profondo nord, affacciata sul lago Michigan, tra Chicago e Milwaukee, terre di grande baseball. Anche se Dan, più che del Wisconsin, si sente figlio dell’Illinois, da cui arriva la sua famiglia. Ma più che italo-americano, oggi sarebbe meglio chiamarlo americano d’Italia, visto che ormai da 36 anni vive dalle nostre parti, dove è sbarcato nel 1982 per vestire la maglia del Nettuno, prima di passare nell’83 al Milano, uno dei soli sei giocatori (con Glorioso, Bonfonte, Donninelli, Montecchi e Maldonado) ad aver giocato nelle due “culle” del baseball italiano. Un solo anno a Milano, ma ha saputo lasciare un grande ricordo: in rossoblù 49 presenze da interbase, 3 homer, 333 di media in una stagione di A1 partita bene con la qualificazione ai playoff, ma finita in sofferenza con una lunga striscia di sconfitte nel girone finale. Poi tre anni a Santarcangelo, prima di iniziare la carriera di tecnico.
“Sì, sono stato fortunato, soprattutto perché in Italia, dopo aver smesso di giocare, ho trovato sempre da lavorare. Ho allenato per dodici anni, tra Santarcangelo, Godo, San Marino, un anno a Rimini come vice di Mike Romano, prima di trovare uno sbocco professionale importante con la Major league”.
Già, perché Dan Bonanno, dopo essere stato giocatore e allenatore, da più di vent’anni è il volto ufficiale della MLB in Italia, oltre che uno dei dirigenti dell’ufficio europeo delle grandi leghe. Un ruolo che lo ha accreditato molto nel baseball italiano e in cui ha dimostrato tutte le sue capacità manageriali. Ma come si è aperta questa strada? “E’ nato tutto quasi per caso, quando allenavo il San Marino. Io non sapevo nemmeno dell’esistenza di un ufficio della Major league a Londra, ma un giorno il vice del responsabile europeo della MLB decise di tornare a New York e così si misero a cercare un sostituto in Europa, chiedendo candidati alle varie federazioni. Quella sammarinese mi girò il fax, come si usava all’epoca, e io andai a fare il colloquio che poi risultò decisivo”.
Che cosa vuol dire lavorare per la Major league. Soprattutto in un continente come l’Europa?
“Per me si è trattato soprattutto di una bella esperienza di lavoro nel mio sport. Anche perché la Major league è una delle maggiori organizzazioni sportive al mondo, ma come tale ha anche tutti i difetti di un colosso. In Europa poi il baseball è proprio uno sport minore e i proprietari dei club americani la considerano relativamente. Loro cercano il guadagno e i numeri del baseball europeo non lo prevedono. E poi se devono cercare dei giocatori vanno in Giappone o nei Caraibi, non qui. Certo, in tutti questi anni avremmo voluto fare di più per il baseball in Europa, ma la MLB ragiona sempre come un’azienda, tiene d’occhio il punto di vista commerciale. Comunque abbiamo organizzato i camp e le accademie, facendo una grande selezione, e abbiamo ottenuto dei risultati, portando parecchi ragazzi a firmare per organizzazioni americane. In Europa d’altra parte sappiamo che c’è molto talento, anche se è inevitabilmente soffocato dal calcio”.
Ma proprio nel confronto con il calcio, la Major league mostra le note dolenti. Perché il “soccer” fa di tutto per penetrare negli Stati Uniti, mentre la MLB con l’Europa è molto tiepida.
“Sì ma il calcio ha già una dimensione mondiale, in Europa è lo sport principale in ogni nazione. E poi ha un vantaggio rispetto al baseball: nel nostro sport puoi guadagnare tantissimo se arrivi nelle Major, ma se stai appena sotto o giochi in altri campionati in giro per il mondo, fai fatica a campare… Nel calcio invece, anche se non giochi nelle squadre che fanno la Champions league, trovi comunque ingaggi interessanti da professionista in tutte le squadre di tutti i campionati europei o sudamericani, magari anche in serie B o in C. Pensate ad Alberto Mineo, che ha firmato a 16 anni ed è bravissimo, ma lotta duramente per trovare uno sbocco in America. Nel calcio, con tutte le squadre professionistiche che ci sono, giocherebbe tranquillamente in prima serie in qualsiasi campionato europeo. D’altra parte i grandi calciatori arrivano da ogni parte del mondo: dalla Slovacchia alla Costa d’Avorio, dal Paraguay alla Polonia. Pensate cosa sarebbe Italia-Polonia nel baseball e cosa può essere nel calcio…”
Adesso però si profila questa svolta epocale con le prime partite di Major in Europa, a Londra, nel prossimo giugno.
“Sì una cosa inedita, un evento epocale per il nostro baseball. Yankees-Red Sox, una sfida di altissimo profilo, davanti a 55mila spettatori allo stadio Olimpico di Londra, sulla scia di quanto stanno facendo già da anni il football della NFL a Wembley e il basket della NBA sempre nella capitale inglese. Cercheremo di dare una risonanza continentale all’evento e pensiamo di organizzare proprio a Londra, in contemporanea, il torneo delle accademie europee. La MLB ha scelto Londra sicuramente per motivi linguistici, perché è la sede del nostro ufficio europeo, ma anche per i risvolti commerciali, perché il Regno Unito è la nazione dove i marchi delle squadre americane vendono maggiormente i loro prodotti in Europa. Poi perchè lo stadio Olimpico di Londra si adatta particolarmente, per dimensioni, ad ospitare un diamante. E infine perché tra New York e Londra ci sono sei-sette voli al giorno e come distanza è quasi come viaggiare negli Usa dalla costa Est alla Ovest. Vediamo come va questa prima volta, ma so che hanno già deciso di tornare anche nel 2020. Intanto vedo come stanno lavorando, con alle spalle due organizzazioni come Yankees e Red Sox, venderanno tutti i biglietti e non regaleranno niente. Credo che persino a noi che lavoriamo alla MLB faranno fatica a darne uno…”
Lasciamo i grandi scenari e parliamo di te: che giocatore sei stato?
“Un giocatore medio, credo. Avrei dovuto pensare meno e concentrarmi maggiormente sulle che cose che sapevo fare. Però quando sei giovane vuoi fare tutto: giocare in difesa, battere i fuoricampo… Ma pochi ci riescono. Credo però di essere stato almeno un buon compagno di squadra, di quelli che hanno sempre voglia di vincere”.
Dall’America all’Italia: sei arrivato da noi nel 1982…
“Sì, a Nettuno, un impatto incredibile. Ho ancora negli occhi quella giornata. Mi aveva contattato Jim Mansilla e arrivavo direttamente da Phoenix: dai cow boy e dal deserto a Roma Fiumicino… Venne a prendermi il presidente, mi ricordo che si chiamava Gioacchino (Giuliani, ndr), e siamo partiti spararti in macchina verso Nettuno dove la squadra stava per scendere in campo mi pare contro il Bologna. Io guardavo il tachimetro e pensavo: ma questo è pazzo… Centoventi, centrotrenta all’ora su strade statali piene di traffico… Poi l’arrivo allo stadio strapieno di gente che urlava, lanciava fumogeni… cose che io non avevo mai visto. Poi mi danno una divisa almeno tre misure più piccola della mia taglia, forse per farmi sembrare più grosso, e mi mandano nel dugout. Un impatto scioccante, per fortuna almeno non mi fecero giocare quella partita…”
L’anno dopo il passaggio al Milano…
“Già, in una situazione completamente diversa. All’epoca non conoscevo ancora le differenze tra il Nord e il Centro-sud Italia, per cui mi sembrò di arrivare in un altro mondo. Gente molto più tranquilla, meno pressione. A Nettuno andavi al campo in bici, ma appena uscivi di casa tutti ti conoscevano, a Milano vivevi nell’anonimato totale. Diversa anche la mentalità delle due squadre, ma pure a Milano c’erano buonissimi giocatori come Paolo Re, suo fratello Luigi, Brusati, Allara… E poi Milano era una grande città europea, molto più vicina alle città americane. Un solo anno a Milano, ma una bella esperienza. Anche se, dopo una prima parte di stagione molto buona, nei playoff abbiamo fatto molta fatica”.
Poi l’approdo in Romagna, a Santarcangelo, che diventerà definitivo…
“Sì, dall’anno dopo sono diventato definitivamente romagnolo. Tre belle stagioni come giocatore del Santarcangelo, il matrimonio, i miei due figli, che oggi hanno 30 e 25 anni. A Nettuno era bello il mare e c’era la vicinanza a Roma; a Milano era bello vivere in una città veramente internazionale; a Rimini, dove vivo ora, siamo a metà strada tra questi due mondi. Qui ho trovato la mia dimensione e adesso ormai mi sento molto più italiano che americano”.
Torniamo a Bonanno giocatore: c’è una partita indimenticabile nella tua carriera?
“Sì, un paio con il Santarcangelo contro il Rimini, perché in quegli anni tra le nostre squadre era un gran derby. Noi abbiamo sempre lottato alla pari fino al 7°-8° inning, ma poi loro avevano qualcosa in più. Però ricordo una partita dell’84 che abbiamo vinto in casa contro il Rimini con un triplo a basi piene di Tassinari. E un’altra invece che stavamo vincendo 4-1 all’ultimo inning con due out e le basi piene e l’abbiamo persa 5-4 per un homer di Carelli…”.
Chi è l’allenatore che ti ha dato di più in Italia?
“Difficile dirlo, onestamente non ho avuto manager che hanno lasciato il segno. Quelli che mi hanno insegnato tanto sono stati quelli delle Università negli Stati Uniti. Qui ho avuto Powers, buon manager, a Santarcangelo. A Nettuno c’era Giampaolo Mirra, uno molto serio, che voleva vincere a tutti i costi, uno con cui non si scherzava… A Milano c’era Passarotto, ma non abbiamo legato molto”.
E il compagno di squadra ideale nella tua avventura italiana?
“Come persona Angelo Cit, un ragazzo di Rimini che era con me nel Santarcangelo: eravamo molto amici ed era il mio compagno di camera. Poi anche Joe Rossi sempre a Santarcangelo. A Nettuno mi trovai bene con Laribee, un americano molto professionale, o con Tony Lo Nero, un vero duro. A Milano invece stavo benissimo con Kenny Spears e George Dummar. Ma in quegli anni, in generale, ho conosciuto tanti ottimi ragazzi che erano anche grandi giocatori: penso a Borroni, a Brusati, due veramente forti, a Fraschetti, che allora era giovanissimo. E poi nelle altre squadre i vari Gambuti, Ceccaroli, Carelli, Manzini, Poma, Fochi, una generazione di italiani straordinaria, che non abbiamo più rivisto. Pensa se quei giocatori avessero avuto a disposizione una struttura come l’accademia e la possibilità di allenarsi tutti i giorni, dove sarebbero arrivati… E infatti allora gli stadi erano pieni, mentre oggi faccio fatica ad andare a vedere le partite: stadi vuoti, luci guaste, mah. Allora avevamo addirittura due gironi da 8 in A1, oggi fai fatica a mettere insieme sei o sette squadre…”.
Il miglior lanciatore italiano?
“Mi piaceva molto Boscarol: lanciava fortissimo. E come stile Massimo Melassi”.
Lo straniero?
“Ai miei tempi c’era Pagnozzi che era un grande. Ma il migliore è stato Richard Olsen del Grosseto, uno che dominava veramente”.
E il battitore?
“Bianchi era fortissimo, ma un vero giocatore da Major league era Gambuti, un catcher eccezionale. Me l’aveva detto anche Don Heinkel, grande pitcher ex major che giocò con lui a Rimini. Però ricordiamoci anche di Matteucci e di Carelli. Tra gli stranieri penso a Dummar: sparava dei fuoricampo chilometrici e poi giocava alla grande in prima e lanciava…”
A proposito, faresti la squadra ideale dei tuoi compagni di squadra in Italia?
“Sì: esterno centro Joe Rossi con Catanzani a destra, un gran battitore di linee, e a sinistra Torroni del Santarcangelo, giocatore di una volontà enorme. In prima Dummar, in seconda Ubani, in terza Frank Garcia sempre del Santarcangelo e interbase… beh in quelle squadre là giocavo io. Però a Nettuno c’era anche Ruggero Bagialemani che è stato un grandissimo. Come catcher Tony Lo Nero. E lanciatore Giacomo Bertoni, che era già anziano quando ho giocato con lui ma si vedeva ancora che era un grande. Oppure Bob Turcio”.
I tre personaggi simbolo del baseball italiano?
“Ti dico tre persone che stimo tantissimo. Il primo è Riccardo Fraccari che ha fatto un ottimo lavoro anche a livello mondiale. Poi Rino Zangheri, che è stato presidente del Rimini per più di 40 anni. E come tecnico Bill Holmberg che ha fatto tanto per l’accademia e ha cresciuto molti ragazzi che poi sono andati in America. Però bisognerebbe ricordare negli anni d’oro anche Notari, nel bene e nel male, oltre a Beneck e al segretario Cecotti, fondamentali per il baseball olimpico”.
E Alex Liddi non può essere un ambasciatore del baseball italiano?
“Sì e no. Perché Liddi è conosciuto molto nel nostro giro, in Italia, ma non dal grande pubblico. Paradossalmente è più popolare negli Stati Uniti, a Seattle ad esempio lo conoscono tutti, che non da noi. Ma purtroppo il baseball in Europa è così: anche il tedesco Max Kepler, esterno destro dei Minnesota Twins, in Germania non lo conosce nessuno…”
L’evento sportivo che ti ha emozionato di più?
“Il World Classic mi piace tantissimo. E’ un evento molto sentito nei paesi latinoamericani, in Giappone. E’ una vera festa del baseball”.
E nel baseball Usa per chi tifi? Lo puoi dire nonostante il tuo incarico?
“Certo e lo dico con orgoglio: i Chicago Cubs che, tra l’altro, dovrebbero venire a Londra nel 2020. Tifo Cubs come tutta la mia famiglia, mio padre e mio nonno che venivano da Chicago”.
E invece qual è la tua origine italiana?
“La famiglia di mio padre era della Calabria e di Palermo. Quella di mia mamma invece era umbra di un paese che si chiama Amelia. Noi ci siamo sentiti sempre proprio italo-americani. I miei nonni avevano lasciato l’Italia mal volentieri nella prima metà del Novecento, ma ricordo che quando dissi a mia nonna che sarei venuto qui a giocare mi guardò sbalordita: ma perché torni in Italia, mi chiese, ma hanno il frigorifero? E hanno da mangiare per i bambini? Tranquilla, le dissi, stanno meglio di noi…”
Si ringrazia per la collaborazione www.milanobaseball.it
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