Uno dei miei ricordi preferiti riguarda la prima volta che il Signor Giulio Montanini mi consentì di andare a raccogliere le mazze per la sua Bernazzoli. Era il 1975, avevo 12 anni e avete capito bene: allora per fare il batboy c’era la fila.
Ricordo che il campo da baseball mi aveva fatto l’impressione di un ambiente polveroso e che i giocatori mi avevano considerato quasi come parte dell’attrezzatura. Nessuno, insomma, mi aveva degnato di uno sguardo. A parte Carlos Guzman.
“Ehi, amico. Non stare lì. Quello è il posto di Montanini. Se ti vede…”.
Montanini, durante uno dei nostri interminabili viaggi di ritorno dai giovedì sera della gara della settimana per Rai Sport (per gli eletti: Nador Tour), ha liquidato il ricordo con un “è assolutamente possibile”.
Inutile dire che il fatto che uno dei miei eroi mi avesse rivolto la parola divenne una vera e propria pietra miliare di quell’anno per me non facilissimo. Stava per concludersi l’anno scolastico in prima media, che dal mio punto di vista fu assolutamente traumatico. Inoltre, ero stato liquidato dalla mia squadra di calcio (l’Arsenal, ma non di Londra, di una frazione di Parma che si chiama Marore) perché non ero abbastanza bravo per la prima squadra e avevano deciso di non formarne una seconda. Della serie che “una volta nello sport c’era un’altra mentalità”.
Guzman non era ancora cittadino italiano. Infatti, in campo si alternava con Ronald Coffman. Curiosamente, perché uno giocava ricevitore (Guzman, appunto) e l’altro era interbase.
L’anno dopo la Repubblica Italiana rimise tutto a posto consegnando il passaporto a Carlos, che divenne Carletto. Lui e Coffman potevano giocare assieme e, forse non a caso, Parma (con il nuovo sponsor Germal) stravinse lo scudetto. Ma questo lo sapevate probabilmente già.
Quello che non sapete è che in seconda media avevo definitivamente rinunciato a essere un calciatore (nonostante i rispettabili 9 gol realizzati la stagione precedente nella squadra B dell’Arsenal) e coltivavo l’ambizione di diventare un catcher a baseball.
Quando si trattò di partecipare ai Giochi della Gioventù, la scuola (la “Arturo Toscanini” nella sua sede di Parma centro) appurò che il professore di Educazione Fisica (ma noi dicevano “ginnastica”) era un calciatore. Anche di accettabile livello (serie D, nel Felino). Non potendo portare in campo una squadra di baseball, si accordò con Guzman per fare una selezione. Carletto come catcher mi scartò clamorosamente e mi sistemò in prima base. Non ero titolare, ma mi regalò la gioia di un turno in battuta contro Paolo Ceccaroli. Che ancora ricordo con terrore.
Nel 1987 ero un intraprendente collaboratore di Radio Onda Emilia. Proposi al direttore un’intervista a Carlos Guzman, che tornava a Parma come coach proprio di Giulio Montanini. Quando chiamai Carletto, mi accolse con il suo memorabile “ciao Eschi”. Chi è di madre lingua spagnola, non è fisicamente in grado di pronunciare la “s” senza una “e” davanti.
Guzman mi accolse a casa sua, dove chiese alla moglie di prepararmi un caffè. A occhio, non era la stessa moglie che aveva quando mi consigliò di non usurpare il posto del Signor Montanini.
Non ho idea di quante mogli abbia in realtà avuto Carletto. Che, l’ho ben presente, non era un modello di virtù. Ma era una persona incredibilmente generosa. Rientrato in Guatemala, quando scoprì che ero stato in vacanza nel suo Paese mi scrisse via Facebook: “Schi” perché scrivendo la ‘E’ non gli era necessaria “Potevi farmelo sapere”.
Avevo saputo che non si era sentito bene, ma non immaginavo che la situazione fosse tragica. E in questa estate per me parecchio intensa, non ho pensato di informarmi meglio. Certo, mi rammarica non aver potuto salutare per bene uno dei miei eroi prima di questo suo ultimo viaggio. Gli avrei voluto dire che, durante quelle famose selezioni del 1976, non gli avevo creduto quando ci aveva raccontato che lo chiamavano Cabrito perché era muscoloso. E che allora non glielo avevo confessato, perché almeno il prima base di riserva volevo proprio farlo.