“Okay Houston, we’ve had a problem here”. Una frase storica, per certi versi drammatica, ma fortunatamente con un lieto fine. Ebbene, tutte le avversarie degli Astros potrebbero pronunciarla, perchè la squadra del Texas ha sbaragliato la concorrenza: miglior record dell’American League. 3-0 a Seattle, 4-0 agli Yankees e 4-2 a Philadelphia, Mai titolo fu più meritato.
Le World Series si sono chiuse dunque con la vittoria di Houston, che in garasei ha chiuso i conti, riprendendosi lo scettro dopo cinque anni e una finale persa la scorsa stagione contro Atlanta. Niente da fare per Philadelphia, che si è illusa sul fuoricampo di Schwarber di poter rigirare l’inerzia della serie, per poi fare subito i conti con l’homer da tre punti di Alvarez che ha rimesso le cose a posto per i padroni di casa. Un epidodio chiave che ha fatto discutere, per il cambio sul monte di lancio tra Wheeler, fin lì quasi perfetto, e Alvarado, il rilievo meno affidabile dei Phillies, già perdente in garadue nella medesima situazione. Mancino contro mancino, regola quasi ferrea nelle Major, ma decisamente inefficace contro Alvarez già in garauno contro Seattle, con Ray colpito e affondato dal “three run homer” del sorpasso. La cavalcata degli Astros, in fondo, è partita proprio da lì, da quella rimonta disperata, e il cerchio si è chiuso nello stesso modo.
Ma Houston ha vinto perchè si è dimostrata indiscutibilmente la più forte. Sul monte di lancio, con partenti sempre affidabili e un bullpen che ha chiuso i play-off addirittura con 0.80 di media pgl. Nel box di battuta, che ha avuto sempre un uomo chiave a trascinare gli altri. In difesa, dove al di là dell’affidabilità totale, sono arrivate giocate sopraffine in momenti topici. E poi nei singoli. I fuoricampo di Alvarez, le valide chiave di Pena, un rookie che si è tolto il lusso di vincere il titolo di Mvp sia nelle World Series che nelle ALCS, l’intoccabile Valdez, l’inossidabile Verlander, che ha finalmente rotto la maledizione play-off vincendo garacinque. E poi lui, Dusty Baker. Venticinque anni di carriera da allenatore (dopo le 19 da giocatore) con 2093 vittorie ma mai un titolo. Un altro incantesimo negativo spezzato dopo undici apparizioni nei play-off senza arrivare in fondo. Stavolta per il 73enne californiano è andata diversamente e l’immagine di lui che scrive l’ennesimo appunto sul suo quadernino mentre la palla battuta da Castellanos va a spegnersi nel guanto di Tucker racconta più di mille parole il personaggio.
Insomma, mai come questa volta tutto è bene quel che finisce bene. Ora “winter is coming”, ma di sicuro ci aspetta un mercato scoppiettante: un nome su tutti, Aaron Judge, free agent di superlusso che scatenerà l’inferno. Da qui agli spring training sarà lunga? Eterna, siamo a novembre, ma ci sarà lo stesso da divertirsi.